Il bambino nascosto, la recensione | Venezia 78
A mancare in Il bambino nascosto di Roberto Andò è la consapevolezza di quali strumenti avvalersi per raccontare la propria storia.
Si assume un bel rischio Gabriele Santoro (Silvio Orlando) quando decide di nascondere in casa sua un bambino senza sapere da cosa fugga, il perché di quel gesto azzardato. Da quel suo appartamento borghese, al cui centro campeggia un pianoforte - Gabriele è maestro al Conservatorio di Napoli - Gabriele e il piccolo Ciro (Giuseppe Pirozzi) osservano la vita al di fuori, aspettando che qualcosa cambi definitivamente le loro esistenze.
Ci sono però diversi aspetti che rendono Il bambino nascosto un film purtroppo problematico. In primis, il mondo in cui Andò decide di rendere il primo incontro tra i due - una delle scene più importanti del film - è quasi svogliato, casuale: questo viene infatti messo in scena con un campo/controcampo velocissimo e con uno scambio di battute che annulla completamente la suspance per quanto sa di finto, costruito.
Il bambino nascosto compie poi un percorso narrativo piuttosto disorientante. Per un certo lasso di tempo, infatti, procede in una direzione “investigativa”: Gabriele comincia a intuire certe cose sui suoi vicini e deve giocare d’astuzia, cercando di capire come proteggersi e come proteggere Ciro. Poi però il film fa marcia indietro e risolve i dubbi in tutta fretta, come se non vedesse l’ora di adagiarsi in una dimensione contemplativa, esistenzialista.
Tanti piccoli errori a lungo termine vanno quindi ad inficiare sulla pur interessante qualità emotiva del film. I personaggi sono troppo abbozzati, le linee narrative troppo confuse. In definitiva, a mancare in Il bambino nascosto è la consapevolezza di quali strumenti avvalersi per raccontare la propria storia. Una storia che invece si intuisce avere un potenziale narrativo molto più grande ma che il film, purtroppo, si accontenta di suggerire.
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