If These Walls Could Sing, la recensione

Non c'è una vera storia in If These Walls Could Sing, semmai la storia di cosa Abbey Road ha contenuto. Più interessante che appassionante

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di If These Walls Could Sing, il documentario sugli studi di registrazione di Abbey Road in uscita il 6 gennaio su Disney+

Per la seconda volta Disney+ ospita Paul McCartney indirettamente. Era successo con il documentario di Peter Jackson, The Beatles: Get Back, in cui McCartney non solo è presente ma di cui era anche produttore, e accade ora con If These Walls Could Sing, altro documentario che include molto materiale su Paul McCartney e i Beatles e che è girato da Mary McCartney, documentarista e figlia del musicista. Gli studi sono al centro di una disputa riguardo la proprietà, è dovuto intervenire il governo e da tempo McCartney lotta per "salvarli". L'arrivo di questo documentario celebrativo non suona casuale.

Il documentario è una celebrazione degli studios e non lo nasconde mai, nasce per narrarne la storia attraverso la musica che è stata lì registrata e procede più o meno cronologicamente nel raccontare il passaggio dalle registrazione di classica, alla svolta data dall’aver accolto musicisti rock e poi gli anni dei Beatles, della musica etnica, Elton John, i Pink Floyd, il ritorno delle orchestre con John Williams e il brit pop fino alla musica moderna. Ne esce il ritratto di uno studio immenso, un elefante di un’altra era dalla gestione non facile (tutti dicono che è il più fornito in assoluto ma poi è un continuo raccontare dei periodi in cui non ci andava nessuno a registrare), un’istituzione britannica come il Big Ben.

L’idea migliore di tutto il documentario è mettere in correlazione l’architettura del posto con la musica che è stata suonata e il fatto che come per una caffettiera o una teiera, un po’ di ciò che viene prodotto rimane attaccato e contribuisce a migliorare il sapore dei lavori futuri. Non ha un vero senso, ma If These Walls Could Sing ha la mano giusta (e i talent giusti) per rendere credibile la visione romantica di un luogo di tecnica e tecnologia che nell’immaginario collettivo è anche un luogo romantico, legato alla storia della musica britannica e non solo. Il punto è che in sé la storia degli studios non esiste, non è accaduto molto alla proprietà se si escludono i dischi registrati (che tuttavia non sono il cuore del racconto ma solo il mezzo per parlare di Abbey Road). 

Peccato quindi che solo in certi punti e brevemente si accenni alle peculiarità tecniche che rendono quelle stanze sonoramente diverse da altre (lo spiega perfettamente John Williams) e che si preferisca invece tutta la parte romantica.

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