I Primitivi, la recensione

La Aardman sceglie uno sport popolare e dà un colpo commerciale alla solita avventura. I Primitivi è un tesoro di idee, trovate e battute ma non respira come un film

Critico e giornalista cinematografico


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Nonostante la Aardman sia lo studio d’animazione europeo più divertente, intelligente, sveglio e capace di usare il linguaggio del cinema per fare dei film (ma anche episodi televisivi) densi di umorismo a diversi livelli di lettura, lo stesso troppo spesso le sue produzioni suonano come più adatte al piccolo schermo di una volta, cioè puntate di una serie o film tv, che opere per il cinema. Con alcune notabili eccezioni (Wallace e Gromit e la maledizione del coniglio mannaro), le loro storie sono così piccole e ridotte nella scala da essere sempre a corto di respiro. Godibilissime, mancano della prospettiva tipica dei film.

È il caso anche di I Primitivi che parte dall’idea assurda di una tribù di uomini primitivi che, causa isolamento prolungato, è rimasta indietro su tutto e di colpo scopre che esistono altre persone decisamente più avanti di loro, un mondo intero che è quasi al medioevo quando loro sono all’età della pietra. È possibile pensare ad una metafora della Brexit di fronte ad ogni film britannico prodotto in questi anni che abbia a che vedere con la posizione di un popolo rispetto agli altri? In un certo senso sì e I Primitivi non fa eccezione.
Quel che anima il film però è il suo paradosso demenziale, cioè che per riottenere la proprietà della loro valle i protagonisti dovranno battere gli invasori in una partita di calcio moderno. È una trovata così scema da essere molto divertente e, ovviamente, molto commerciale. L’animazione stop motion non è propriamente la più popolare, invece prendendo in giro lo sport più famoso del mondo I Primitivi diventa in breve quel che non si credeva potesse essere, una parodia dello sport.

I grandi classici della comicità Aardman ci sono tutti, dall’uso espressivo degli animali, alle situazioni ricorrenti fino alle gag pazzesche per costruzione e realizzazione, come se i pupazzi in plastilina lavorassero da attori navigati. Nonostante infatti aderisca in pieno allo schema solito di molte commedie britanniche (la banda di provinciali brutti che si mette a fare qualcosa che non gli competerebbe tramite metodi non ortodossi ma con gran cuore), il film è un tesoro di trovate di cui ogni altra pellicola avrebbe un bisogno disperato e che qui invece sono distribuite con fare magnanimo ogni minuto. Per questo forse dispiace così tanto che al di là della sua storia e della prima impressione sui suoi personaggi non si possa leggere molto altro, proprio come nelle puntate di uno show televisivo, che però può farsi forza di una arco narrativo più grande che qui, ovviamente, non c’è.

A sorpresa la versione italiana è molto ben doppiata nonostante sfrutti i soliti talent che non sono doppiatori professionisti e in certi casi nemmeno attori. Mentre era prevedibile l’ottima prestazione di Corrado Guzzanti (che molto altro ha doppiato e bene) o Paola Cortellesi (esiste qualcosa che non sappia fare??), stupisce sia Scamarcio nel ruolo protagonista, molto bravo, che un irriconoscibile Salvatore Esposito in quello di antagonista, ma soprattutto stupisce quanto bene sia stato messo al lavoro Alessandro Florenzi, calciatore della Roma, che sebbene abbia poche battute non stona rispetto alle altre voci e sembra un doppiatore come gli altri.

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