I predatori, la recensione | Venezia 77
Uno dei film più esilaranti dell'anno e di certo l'esordio italiano determinante del 2020 è I predatori, diretto da Pietro Castellitto
Al netto di alcune imprecisioni, di una seconda parte che vira più sul drammatico da che la prima era stata più smaccatamente comica e di una certa irresolutezza nella maniera in cui sono affrontati i personaggi (non esplorati, ma proprio presi di petto), sempre lì lì per essere conosciuti, sempre lì lì per esserci vicini ma irrimediabilmente troppo distanti, I predatori è la boccata d’aria fresca, più fresca che si sia respirata da anni a questa parte nella commedia italiana. Non è questione di quanto si rida (metro sciocco e pesante) ma di come questo avvenga e di conseguenza di come questa reazione indirizzi la percezione del mondo rappresentato.
In questo universo in cui due famiglie opposte incrociano le loro disavventure (una alto borghese e intellettuale, l’altra fascista, borghesuccia e popolare) a contare più di tutto è il punto di vista sull’umanità ed è anche ciò che nella seconda parte un po‘ affossa il film, finendo a fargli dire quel che il cinema italiano dice sempre (meglio la vitalità della borgata dell'altera freddezza dei più ricchi). I predatori non vuole infatti ribaltare il senso della realtà come fanno i film demenziali ma vuole enfatizzare solo di poco l'aspetto ridicolo del quotidiano. È come guardiamo eventi molto ordinari, come funziona il montaggio interno e come è gestito il cast o il sonoro a stravolgere le situazioni. Piccoli dettagli ben scelti e cruciali.
In questo modo una storia di ordinarie coincidenze e straordinarie idiozie riesce a mostrare l’inadeguatezza umana, a tratti anche con un affetto coinvolgente (specie nel caso della famiglia fascista) e sempre con un acume eccezionale nel notare qualcosa di nuovo che ogni giorno, ogni ora e ogni minuto, ci rende affettuosamente ridicoli.