I molti santi del New Jersey, la recensione

I molti santi del New Jersey ha tutti i pregi di un episodio di una serie, completa I Soprano ma non lascia traccia nella storia del cinema

Critico e giornalista cinematografico


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I molti santi del New Jersey, la recensione

La promessa di raccontare le origini di Tony Soprano, o meglio come Tony Soprano è diventato Tony Soprano, è mantenuta anche se poi lui c’è poco, è uno dei molti personaggi toccati dal film in quella che è la storia di Dickie Molisanti. Lui nella serie è il nume tutelare spesso ricordato da Tony, qui è lo vediamo quando era ancora un capo che muoveva tutto e una sorta di modello involontario per Tony, animato dagli stessi contrasti. Anche Dickie è stretto tra due fuochi confermando che l’interesse di David Chase è in queste figure che aspirano al meglio vivendo il peggio.
Non ha una psicologa Dickie ma per parlare con qualcuno va in prigione a trovare uno zio omicida che sì è ravveduto ed è diventato saggio e assennato. Lo fa subito dopo aver ucciso per eccesso di rabbia (non sarà l’unica volta che gli capiterà). Era questa una delle caratteristiche clamorose di I Soprano: l’accostamento tra le brutalità da villain e l’approfondimento da protagonista positivo. I protagonisti li vediamo essere terribili e poi ci addentriamo nei loro problemi fino a trovare punti in comune con noi stessi.

I molti santi del New Jersey, sono lui: Dickie “Moltisanti”, padre di Christopher (a cui Tony farà da mentore nella serie), uomo più sveglio di tutti quelli che lo circondano, capace di capire le persone e di avere, a differenza degli altri, una specie di intuizione del tempo e del mondo che vive. Perché nell’universo di I Soprano la mafia è fuori dal mondo e fuori dal tempo, agisce e vive come una volta, solo qualcuno sembra quasi emergere e respirare. E questo contrasto creerà i molti problemi di Tony, incapace di conciliare quel che fa e vive con una natura più intelligente, sensibile e umana degli altri.

Tuttavia così in linea con la serie è I molti santi del New Jersey che sembra di assistere a due episodi flashback da un’ora ciascuno. Il primo ambientato nel 1967, durante le rivolte di Newark (scatenate dall’uccisione di un tassista afroamercano), e il secondo ambientato solo qualche anno dopo. Tony ha circa 13 e poi 17 anni, quando è interpretato dal vero figlio di James Gandolfini, e vede lo zio Dickie fargli da padre indirizzandolo verso il crimine da che la sua vita sembra andare nella direzione della “società civile”, come la chiama lo stesso Dickie. Nonostante sia cresciuto nel mondo della mafia, Tony non è nato con la vocazione del mafioso, questo dice il film, ma bisogna fidarsi. Perché che Tony sia più sveglio della media e con una grande leadership lo dovrà spiegare una professoressa, noi da soli non l’avremmo mai capito a giudicare da quel che vediamo. Mai il suo acume e la capacità di risolvere tutto e tirare le fila di un’organizzazione sono anche solo suggerite.

È solo il primo dei molti problemi di un film che non è mai tale nonostante una color correction e lenti da cinema cerchino di allontanare la messa in scena dalla tv.
Questi due episodi appiccicati sono un compendio buono per la serie, forniscono informazioni e molto fan service, hanno il tono giustissimo e contestualizzano molto di quel che è accaduto nelle stagioni di I Soprano. Tuttavia non sempre Alan Taylor (che pure ha lavorato come regista alla serie) riesce a tenere in piedi quell’eccezionale dignità che ha sempre avuto I Soprano e cede nel reparto trucco e recitazione, inseguendo eccessivamente il calco. Silvio, Paulie e tutta la banda che qui vediamo giovani, sono macchiette che replicano gli attori che li hanno interpretati. Solo Uncle Junior, interpretato da Corey Stoll, sembra davvero la versione giovane del suo personaggio.

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