I Love America, la recensione

Concepito per un'esaltazione e assoluzione delle fantasie della stessa regista, I Love America non riesce a dire niente di niente su nulla

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di I Love America, in uscita il 29 aprile su Prime Video

Ci sono film la cui inconsistenza è evidente già a metà visione, quando è ormai chiaro che la trama non stia andando da nessuna parte, che i personaggi su cui si concentra tutto non siano messi a fuoco ma abbiano le caratteristiche utili a provare un punto per chi il film lo ha scritto e diretto, e quando infine tutto quel che si vuole dire si esaurisce in una mortale formula di autoassoluzione, un’esaltazione di sé attraverso l’avatar di un personaggio cinematografico, in forma di commedia rigorosamente non divertente. È una pratica per fortuna non troppo frequente ma sufficientemente abusata da poterla riconoscere, e questa volta è toccato a Lisa Azuelos.

Regista francese di film come Selfie di famiglia (già abbastanza ruffiano) ora scrive e dirige una commedia su una regista francese in viaggio in America, la ricerca di un amore, il rapporto con i figli, l’incontro con una terra straniera in cui sentirsi più libera, costumi diversi e la costante sensazione di essere migliore degli altri, di accorgersi sempre delle contraddizioni e assurdità americane da un piedistallo di (teorica) normalità. Non capiamo nulla dell’America ovviamente né c’è una visione di quel mondo con gli occhi europei. Non capiamo nulla nemmeno dell’Europa, per contrasto. Non capiamo niente di nuovo delle due culture perché il film non ha idee in merito. Come non capiamo niente sulle differenze nelle relazioni o sul particolare mondo di Los Angeles. Niente.

In compenso c’è veramente veramente tanto di irritante in I Love America che non è attenuato nemmeno dalla presenza sempre dolce e tenue di Sophie Marceau (la quale si impegna e si dà al film ad occhi chiusi, credendoci così tanto che quasi commuove). Quest’avventura priva di un vero intreccio, che pretende di fare quel lavoro complicatissimo che è ritrarre la vita per come si svolge, senza però la fatica e il lavoro di cesello indispensabile sul numero di scene, i dialoghi, la naturalezza e la creazione di un’atmosfera accogliente per lo spettatore, è un supplizio ingiusto per chiunque. Nell’inferno del cinema è questo il tipo di film che i diavoli proiettano a rotazione ai dannati, quelli concepiti pronunciando la frase “La mia vita è proprio perfetta per un film!” ad un amico sicofante che annuisce distrattamente, dopo un appuntamento andato male.

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