I Leoni di Sicilia, la recensione dei primi tre episodi

I primi tre episodi di I Leoni di Sicilia, serie tratta dal romanzo di Stefania Auci, sono una desolante brodaglia narrativa senza identità

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La recensione dei primi tre episodi di I Leoni di Sicilia, la serie disponibile su Disney+

Tra le lezioni più importanti che vengono impartite quando ci si approccia allo studio della storia del costume, vi sono quelle legate alle sottostrutture. Corsetti, bustini, stringivita (per donne e per uomini, si badi), stecche di balena, gabbie e sellini: tutto è fondamentale per dare al corpo una determinata forma, che diviene iconico emblema di un decennio specifico. Un preambolo che risulta tragicamente calzante guardando i primi tre episodi di I Leoni di Sicilia, stucchevole e rozza summa del dramma d'epoca più dozzinale.

Bastano già i primi dieci minuti ad avere una panoramica precisa sul divario comico tra le ambizioni della serie diretta da Paolo Genovese (inspiegabile scivolone in una carriera di tutto rispetto) e la sconfortante pochezza che scorre dinanzi allo sguardo del malcapitato spettatore. Mentre ci vengono raccontate le origini della fortuna dei Florio nelle figure dei fratelli Paolo (Vinicio Marchioni) e Ignazio (Paolo Briguglia), la colonna sonora del tutto anacronistica ricorda vagamente i jingle d'attesa di qualche studio dentistico. L'intento è, ovviamente, quello di svecchiare il period drama: il risultato che la serie consegna al pubblico è quanto di più cadente e stantio si sia visto negli ultimi anni sulle piattaforme streaming.

Identità confusa

Le avventure di Paolo e Ignazio non hanno né afflato epico di rivalsa sociale, né la ricchezza psicologica di cui un dramma familiare necessiterebbe; i loro caratteri, così come quello di donna Giuseppina (una pur brava Ester Pantano), sono il risultato di un rozzo lavoro d'accetta piuttosto che di una fine opera di cesello. In quest'ottica, i primi due episodi di I Leoni di Sicilia sembrano rincorrere un'identità che, però, non hanno ben chiara. In poche parole, non hanno sottostruttura: vestono i panni del dramma in costume, ma sotto quegli abiti non c'è nulla a sostenere una forma che dia loro un'identità più solida di un cencio strapazzato dal vento.

La situazione non migliora quando, in questo palcoscenico desolante, fa il suo ingresso la coppia composta da Vincenzo (Michele Riondino) e dalla sua improvvisa fiamma, la milanese Giulia (interpretata, secondo logiche difficili da comprendere appieno, dalla catanese Miriam Leone). Sebbene I Leoni di Sicilia trovi, nel terzo episodio, la propria quadratura del cerchio nella cornice rassicurante del romanticismo, il ritratto a due (del tutto privo di chimica) che ne emerge è di una mediocrità narrativa tanto scadente da farci rimpiangere le confuse premesse della stagione.

Fallimento a tutto tondo

Siamo di fronte a un disastro che coinvolge, è bene dirlo, ogni singolo reparto: poco può fare il cast di fronte alla grossolana superficialità di dialoghi degni delle peggiori telenovelas di vent'anni fa, e le performance di comprovati professionisti della recitazione - Marchioni, Riondino, Briguglia in primis - sprofondano sotto il peso di una sceneggiatura didascalicamente tediosa e scontata, che trova perfetta eco nel ciarpame musicale della canzone di Laura Pausini, novella Caronte dello spettatore sui titoli di coda che liberano dalla noia.

Il comparto visuale è in linea con quello narrativo, affossato da una ricostruzione storica da mani nei capelli. Ecco dunque i costumi di I Leoni di Sicilia divenire il simbolo stesso della serie in cui si muovono: mal pensati, mal realizzati, privi di sottostruttura, spie di una confusione e di una mancanza di studio che rende questa serie il perfetto esempio televisivo del termine fallimento. Senza struttura, non siamo che stracci; e questo racconto, almeno nei suoi primi tre capitoli, ha l'aspetto tragicomico di un panno da cucina grottescamente issato a bandiera.

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