I giganti, la recensione | Locarno74
Pensato per essere girato in tempi di distanziamento sociale I giganti mostra più che altro le difficoltà e i limiti più che le sue idee psicanalitiche
Se esiste un “cinema da pandemia”, cioè produzioni caratterizzate da lavorazioni in ambienti unici con un cast limitato, fattibili in tempi di controlli, lockdown, tamponi e distanziamento, allora I giganti di Bonifacio Angius ci rientra in pieno. È una storia di droga che diventa una storia di umanità allo sbando, di alcuni amici, ma forse sarebbe meglio dire conoscenti, che si riuniscono nella casa disabitata e serrata di uno di loro per farsi alla grande. C’è il più esaltato, il più introverso, quello funestato da demoni, il politico e il fratello senza peli sulla lingua. Per tutti quella permanenza alimentata da droga è un modo per non affrontare dei problemi che puntualmente si presenteranno.
Ci sarà chi le ritiene poco più di oggetti, chi non è mai riuscito ad entrarci in contatto e chi le ha perse. Tutti non fanno che odiarsi a vicenda perché odiano se stessi in un inasprirsi psicoanalitico che è il vero cuore dell’operazione. Come nella gran parte dei film da pandemia infatti è la scarnificazione a vicenda dei personaggi (o delle relazioni a seconda di chi è coinvolto) ad essere il cuore del film, il lento decomporsi delle facciate e l’emergere delle essenze, in questo caso in tutta la loro miseria. È in questo un cinema che flirta con il teatro per la maniera in cui abusa delle location uniche e mette al centro monologhi e dialoghi, personaggi invece che intrecci, finendo per dichiarare sopra a tutto le proprie costrizioni e i limiti entro i quali è stato realizzato. Eppure la mancanza di empatia e l'impressione che a Bonifacio Angius per primo importi poco del destino di queste figure, che partecipi scarsamente al loro declino e ancora di più che lo comprenda relativamente rendono troppo distante un film che avrebbe dovuto vivere di comprensione e condivisione.