I giganti, la recensione | Locarno74

Pensato per essere girato in tempi di distanziamento sociale I giganti mostra più che altro le difficoltà e i limiti più che le sue idee psicanalitiche

Critico e giornalista cinematografico


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I giganti, la recensione | Locarno74

Se esiste un “cinema da pandemia”, cioè produzioni caratterizzate da lavorazioni in ambienti unici con un cast limitato, fattibili in tempi di controlli, lockdown, tamponi e distanziamento, allora I giganti di Bonifacio Angius ci rientra in pieno. È una storia di droga che diventa una storia di umanità allo sbando, di alcuni amici, ma forse sarebbe meglio dire conoscenti, che si riuniscono nella casa disabitata e serrata di uno di loro per farsi alla grande. C’è il più esaltato, il più introverso, quello funestato da demoni, il politico e il fratello senza peli sulla lingua. Per tutti quella permanenza alimentata da droga è un modo per non affrontare dei problemi che puntualmente si presenteranno.

E nonostante sia cinema da pandemia c’è anche un’aria da cinema italiano degli anni ‘90 in I giganti, film che fieramente non ha modelli internazionali e cerca di trovare le ragioni nella scrittura prima che nelle immagini, nella recitazione prima che nello svolgimento, nell’esito imprevisto (?) prima che nei suoi momenti migliori. Sempre in questo senso I giganti è un film pieno di droga in cui la droga è marginale, non ha nulla da dire su quello, la usa come agevolatore di esasperazione, la usa per mettere i personaggi in condizione di arrivare alle estreme conseguenze. Che invece è ciò che gli preme. Le estreme conseguenze di tipi umani ai margine, non integrati, soli, con un rapporto pessimo per tutti con le donne che viene svelato lentamente.

Ci sarà chi le ritiene poco più di oggetti, chi non è mai riuscito ad entrarci in contatto e chi le ha perse. Tutti non fanno che odiarsi a vicenda perché odiano se stessi in un inasprirsi psicoanalitico che è il vero cuore dell’operazione. Come nella gran parte dei film da pandemia infatti è la scarnificazione a vicenda dei personaggi (o delle relazioni a seconda di chi è coinvolto) ad essere il cuore del film, il lento decomporsi delle facciate e l’emergere delle essenze, in questo caso in tutta la loro miseria. È in questo un cinema che flirta con il teatro per la maniera in cui abusa delle location uniche e mette al centro monologhi e dialoghi, personaggi invece che intrecci, finendo per dichiarare sopra a tutto le proprie costrizioni e i limiti entro i quali è stato realizzato. Eppure la mancanza di empatia e l'impressione che a Bonifacio Angius per primo importi poco del destino di queste figure, che partecipi scarsamente al loro declino e ancora di più che lo comprenda relativamente rendono troppo distante un film che avrebbe dovuto vivere di comprensione e condivisione.

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