I fratelli De Filippo, la recensione

Dei fratelli De Filippo, il film di Rubini non è che una biografia didascalica e illustrativa, dove tutti i passaggi sono sottolineati dai dialoghi e il paesaggio è da cartolina

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Fa di tutto, I fratelli De Filippo, per sembrare, più che un’opera da grande schermo, un inerte sceneggiato televisivo. Prende i contorni di un manuale didattico e illustrativo, piuttosto che approfondire i suoi temi o dare spessore ai personaggi. Si prolunga per ben 140 minuti scandendo il racconto con salti temporali precisi, perfettamente suddivisibili in puntate o capitoli. E poi perde l’inevitabile confronto con il recente Qui rido io, di cui è calco, più che controcampo, nella prima parte (l’infanzia e i primi passi a teatro di Eduardo, Peppino e Titina sotto l’ala di Eduardo Scarpetta, il più importante drammaturgo dell’epoca e loro padre naturale).

Mario Martone ricorre al biopic per intrecciare dinamiche famigliari al contesto storico, riflettere sul passaggio tra tradizione e modernità, focalizzandosi sulla figura del padre, ma di riflesso parlando anche della condizione dei figli. Il film di Sergio Rubini, assumendo invece in toto la prospettiva di questi ultimi, propone alcuni spunti, ma non ne approfondisce nessuno. Esplicita l’ombra ingombrante che Scarpetta getta sui tre fratelli, il loro desiderio di emancipazione, la posizione privilegiata di Eduardo che "tiene la sua arte", ma si focalizza sulla relazione tra di loro, in una netta suddivisione tra i caratteri (Eduardo il risoluto, Peppino il riluttante, Titina la concreta). In parallelo, viene dato anche spazio al figlio legittimo Vincenzo, che, privo di talento, cerca di fare fortuna ricalcando le orme del padre, finendo per pagarne le conseguenze; ma la sua è una figura solo abbozzata, mero avversario dei protagonisti. Lo sviluppo non è dunque funzionale a portare avanti un discorso più ampio, quanto solo a raccontare fedelmente la biografia dei protagonisti.

È evidente come Rubini sia interessato a rappresentare la fusione tra realtà e messa in scena nella vita dei De Filippo, a partire da un incipit che potrebbe richiamare Baz Luhrmann: il sipario del Cinema Teatro Kursaal si apre, la macchina da presa si avvicina allo schermo per introdurci nel lungo flashback che ci riporta ai tempi dell’infanzia dei tre. Ma la Napoli dell’epoca sullo sfondo è un paesaggio da cartolina, e tutti i passaggi della narrazione, non sono evocati o suggeriti dalle immagini, ma spiegati ed evidenziati dalle parole. Così, quando Eduardo ritorna a Napoli dopo una parentesi funesta in una grigia Milano, guardando la vitalità della gente al mercato, realizza che "il popolo è una bella compagnia, e la vita una commedia", esplicitando i cardini della sua produzione artistica. O quando lui e Peppino ritrovano un momento di serenità dopo tanti asti, è Titina a dire "guarda i miei fratelli, lì vedo così per la prima volta!". Un didascalismo spinto che, ribadendo e ribadendo temi e concetti, sottovaluta completamente lo spettatore. Così, non risalta mai il legame tra i due piani: una scena mette in luce il frangente di momentanea difficoltà economica dei De Filippo, come se fosse tratta da uno dei testi di Eduardo, ma l’effetto è più di una patina da neorealismo derivativo e stucchevole.

I fratelli De Filippo non è un affresco storico, non è una riflessione sull’arte teatrale: Totò e Pirandello, altre figure cardine del panorama dell’epoca, passano come sbiadite figurine, tutte connotate negativamente. È semplicemente un convenzionale racconto della forza e dell’unità di una famiglia, che lotta da sola contro tutte le avversità, che supera indefessa tutte le divisioni per ritrovarsi insieme sul palco. Non mancano neppure le didascalie finali correlate da fotografie originali, per un’impressione complessiva di santino.

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