I figli degli altri, la recensione

I figli degli altri è una storia d'amore e di cura che riesce a essere toccante grazie alla sua protagonista e nonostante uno stile essenziale

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Quando si è innamorati la faccia cambia. Succede anche a Rachel, interpretata magnificamente da Virginie Efira, protagonista de I figli degli altri. L’inizio è come quello di Parigi 13 Arr. di Jacques Audiard (con cui la regista Rebecca Zlotowski ha avuto la storia sentimentale che ha ispirato il film). La tour Eiffel risplende nella notte, la cinepresa vaga tra gli edifici, segue le luci dalle finestre, ne segue una e la osserva. 

Uno raccontava il sesso come dialogo tra i personaggi, qui l’amore è un’emozione vissuta attraverso gli occhi classici del romanticismo. Rachel si innamora di Alì, un padre single con una figlia di 4 anni di nome Leila. È una passione potente, felice e totalizzante. Non è però una passione esclusiva, perché il suo impatto si propaga su altre due persone: la piccola bambina e sua madre biologica. 

I figli degli altri è un film fuori tempo, in cui cioè tutti i personaggi sembrano arrivare tardi alle loro scelte di vita. C’è chi ha già figli, chi non riesce ad averne, c’è una mamma che sta per morire e un figlio che è arrivato troppo presto. Il conto alla rovescia inizia con un dialogo fulminante con il ginecologo Frederick Wiseman (interpretato proprio dal grande documentarista): “quanto tempo mi resta?” (per avere figli). “È la stessa domanda che mi pongo io ogni mattina” risponde l’anziano uomo. Il tempo della vita scorre in molte direzioni. 

Alla protagonista e a Rebecca Zlotowski interessa l’effetto che l’essere madre fa sulle donne, i cambiamenti di pensiero e lo scambio tra il dare e l’avere che la vita impone. Rachel dà agli altri tantissimo e con un’incredibile generosità, ma lo fa anche inconsapevolmente per avere qualcosa indietro. Glielo farò notare Alì, dopo un gesto di cura eccessivo rispetto ai confini del suo lavoro di insegnante. L'amore come dono e dato e ricevuto.

Senza alcun giudizio, premurandosi anzi di rappresentare solo una storia specifica, e non desideri e condizioni universali, il film si trasforma in una affascinante storia di cura. È tutto misurato, contenuto in un realismo emotivo straordinario. La decisione più importante che la coppia dovrà prendere viene mostrata inquadrando solo le due mani l’una nell’altra. Le merende portate dalle mamme alla fine delle attività sportivi dei figli sono l’immagine più azzeccata. Passare un succo di frutta a chi si è presentata a mani vuote è il gesto simbolico di una solidarietà femminile che permea tutto il film.

Nessuna voglia di denuncia o di rivendicazione. I figli degli altri costringe i personaggi ad accettare che le persone a cui vogliono bene abbiano un passato. È fatto di gente che si deve abbandonare a quello che è stato, con il rischio di affezionarsi, di rendere la vita altrui un pezzo della propria vita, senza però possederne il controllo. 

Senza l’ambizione di creare un grande film, Zlotowski raggiunge un romanticismo semplice ed emotivamente plausibile. Peccato per alcuni orpelli visivi (i mascherini in stile nouvelle vague) o alcuni didascalismi nella messa in scena (Parigi è raccontata visivamente proprio male) che appiattiscono un po’ il tutto. Il risultato è però toccante, anche se richiede una buona dose di pazienza dato il ritmo disteso. Perché questa “seconda donna”, spesso al cinema relegata come elemento di rottura negli equilibri, è affascinante e magnetica.

Merito dello sguardo di Virginie Efira, che recita con un’energia vitale e positiva che continua anche nei momenti più drammatici. Regge i primi piani con una potenza incredibile. In particolare un campo e contro campo, sul finale, racconta per immagini un modo interiore aggrovigliatissimo. 

Persino Leila, la bambina interpretata dal Callie Ferreira-Goncalves, raggiunge quella spontaneità sufficiente a trasmettere il bisogno di calore dei più piccoli. Si parla tramite disegni e abbracci, con oggetti e con il corpo. Si fa l’amore, ci si diverte nel farlo. I personaggi si illudono, fraintendono i sentimenti, si trattengono e si concedono, in un continuo cambio di idee che è adorabile per quanto alla portata di tutti.

I figli degli altri è un bell’esempio di un cinema che riesce ad essere significativo, senza dover esibire uno stile proprio e riconoscibile. Raggiunge tutto quello che si propone di fare e, con la semplicità dell’amore tra i personaggi riesce a contagiare anche chi guarda. 

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