I Due Papi, la recensione
Cronaca vera che diventa pura finzione, religione usata per mostrare due approcci alla vita, I Due Papi scarta in fretta il suo contesto e diventa un film esemplare
I DUE PAPI, DI FERNANDO MEIRELLES: LA RECENSIONE
In mano a uno specialista di biopic e film non sempre impeccabili come Anthony McCarten (Bohemian Rhapsody, La Teoria Del Tutto, L’Ora Più Buia), I Due Papi poteva essere il punto più basso di una carriera eccezionale nei risultati ma deludente negli esiti artistici. Invece per la prima volta c’è da fare i complimenti proprio alla scrittura. Questa storia tra realtà e finzione, tra cronache vere e dialoghi inventati, mette a confronto due peccatori diversi che scopriranno ovviamente di essere più vicini di quanto non credano. E lo fa con il fine di celebrare Jorge Mario Bergoglio e spiegare al mondo Joseph Ratzinger.
Come in Jobs di Danny Boyle anche qui gli ambienti che i personaggi attraversano durante le conversazioni sono scelti con grandissima cura per accoppiarsi bene (sia in armonia che per contrasto) con il momento della conversazione che si svolgerà lì, sono esterni come interni ma sempre illuminati e curati per riflettere qualcosa. Inoltre a dare il passo controllato ma mai prolisso c’è il gusto sottile per il montaggio di Meirelles che di certo non scopriamo ora.
Non tenero con Ratzinger, I Due Papi non fa che assestare colpi alla sua personalità, alla sua visione del papato, alla sua gestione delle questioni di chiesa e alla sua visione del mondo. Sostanzialmente lo picchia per tutto il tempo ma, come il cinema americano dell’epoca d’oro insegna, lo fa con l’esplicita intenzione di aumentare la commozione quando alla fine lo grazia, all’ultimo miglio prima che il film si chiuda, dando a lui il twist (atteso) di trama, cioè l’annuncio della fine del suo pontificato e la previsione di quello di Bergoglio. È un momento che non solo lo assolve, mostrandone la tenerezza, ma lo eleva dimostrandone l’intelligenza e l’acume.
Sarebbe facile dire che non poteva esserci nessun altro se non Jonathan Pryce e Anthony Hopkins, in realtà non è così, la sceneggiatura funziona benissimo da sé e la regia è attentissima. È semmai più corretto dire che la presenza di Pryce e Hopkins dona al film un altro livello di lettura ancora, quello di due attori completamente diversi, un barone del cinema e una seconda linea di grande lustro, che combattono con tecniche e modalità opposte per un fine comune.