I delinquenti, la recensione

Il film-anagramma di Rodrigo Moreno affascina con le sue trasformazioni, ma alla lunga mostra la corda di un gioco un po' schematico.

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La recensione di I delinquenti, il nuovo film diretto da Rodrigo Moreno, in arrivo al cinema dall’11 aprile.

Se con Tenet (2020) Christopher Nolan aveva realizzato un “film-palindromo”, I delinquenti di Rodrigo Moreno potrebbe essere definito il “film-anagramma”. Cinema d’autore lento e sinuoso, lungo più di tre ore ripartite in altrettanti capitoli cambia pelle continuamente, come se si divertisse a provare nuove combinazioni dei suoi elementi. Parte dramma surreale sulla burocrazia del lavoro, diventa film carcerario, poi romantico, si apre a parentesi idilliache tipo Una gita in campagna e perfino a riflessioni meta-cinematografiche. Ma c’è un equilibrio dietro la follia. In effetti, dovendo trovargli un difetto si potrebbe accusarlo di eccessivo schematismo, di voler dimostrare ad nauseam un teorema narrativo che alla lunga lo rende arido, minandone un po’ la poesia ironica e stralunata.

Buenos Aires. Un impiegato modello di una banca (Daniel Elías) stanco della sua vita alienante, decide di rapinare i suoi datori di lavoro: ruberà esattamente i soldi che avrebbe guadagnato fino alla pensione, starà in carcere massimo tre anni e mezzo e guadagnerà decenni di vita “libera”. Nel colpo coinvolge anche un collega (Esteban Bigliardi) che avrà il compito di custodire il denaro e che a sua volta si sente prigioniero del suo matrimonio. Per entrambi diventare delincuentes significa esplorare percorsi di vita alternativi, scombinando le carte di una strada che sembrava tracciata. Ma abbiamo davvero alternative?

I delinquenti si pone questa domanda mettendo in scena personaggi che sognano qualcosa di diverso, laddove per diverso si intende soprattutto “pre-moderno”: il loro è un viaggio dalla metropoli alla pampa, dagli uffici alle rive dei fiumi, dai tram ai cavalli. Una specie di sogno hippy in salsa argentina, che vede la libertà autentica come legata al recupero di una dimensione atemporale, non più scandita dagli impegni di lavoro e di famiglia ma solo dall’immobilità del paesaggio naturale. Più fatalista che romantico, Moreno gli mette però i bastoni fra le ruote, dipingendo una realtà che dietro le apparenti differenze non fa che riproporre gli stessi elementi.

Così Morán e Román, anagrammi l’uno dell’altro, si innamorano della stessa donna, Norma (si aggiungeranno anche Morna, Ramón e un fumetto di Namor). Un capoufficio burbero che sogna i bei tempi andati, in prigione diventa un capomafia burbero che sogna i bei tempi andati (li interpreta entrambi Germán De Silva). La ricerca della libertà si scontra, a tratti un po’ schematicamente, con la scoperta da incubo kafkiano che la realtà non è fatta di vere alternative ma di permutazioni di cifre. A un certo punto la questione diventa anche meta-cinematografica, con un regista che si chiede se esistano ancora nuove strade da percorrere o se il cinema sia - tanto per cambiare - morto: dopotutto anche il nome di Moreno è quasi anagramma degli altri.. nonostante il suo fascino paradossale, I delinquenti finisce a tratti per sembrare un film girato con la calcolatrice. Un film un po’ “da banca”.

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