I dannati, la recensione | Cannes 77

Un film di finzione che sembra un documentario, ma è sempre lo stesso ibrido di Minervini. I dannati è meglio in teoria che in pratica

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di I dannati, il film di Roberto Minervini presentato in Un certain regard a Cannes e subito in sala

Il vero ponte tra i documentari che Roberto Minervini ha fatto fino a oggi e I dannati, il suo primo film di finzione, è la prima scena. Un branco di lupi smembra una carcassa, un momento di quelli che avrebbero potuto aprire uno dei suoi documentari ma che è ambientata in un tempo che può essere solo di finzione: l’America del 1862, in piena guerra di secessione. La metafora è chiara a sufficienza, si può iniziare. Il film che seguirà, curiosamente, si pone esattamente nello stesso punto dello spettro tra documentario e finzione, degli altri. Cioè sia che parta per documentare, sia che parta per fare cinema di finzione, Minervini finisce sempre nel medesimo ibrido, vedendo il quale siamo consapevoli di quanto sia reale o artefatto, anche se l’impressione è di un’opera a metà tra i due.

Per tutto I dannati un plotone di soldati in marcia cammina, risolve piccoli problemi, a un certo punto cerca di sopravvivere a una sparatoria (unico attimo in cui c’è un’azione) e soprattutto dialoga. Da sempre interessato all’America che nessuno racconta qui Minervini espone cosa pensano gli americani di comunità, religione, differenze sociali e ricerca della felicità. In quell’America lì, spezzata in due, si fanno discorsi e si dicono cose che, non a caso, stanno bene anche nell’America polarizzata di oggi. Non serve sapere altro, non c’è background dei personaggi, non sappiamo come si chiamano, non sappiamo da dove vengono o cosa vogliono. Non sono personaggi proprio, sono soggetti parlanti senza identità che in quanto tali esprimono idee che sono espressione del sentire comune (o almeno di alcune versioni del sentire comune).

Tutto chiaro ma non tutto impeccabile. Queste scelte non fanno infatti un gran servizio al film e alla gran fattura di Minervini. L’impegno profuso nella creazione di questa atmosfera nevosa, da terra di nessuno, in una natura realmente ostile se non proprio indifferente con una luce che pare sempre quella dell’alba, viene un po’ frustrato da quel che accade al suo interno. I dialoghi che costituiscono il 90% di I dannati infatti oltre ad esporre dei temi non vanno da nessuna parte. Non costruiscono un senso all’interno di un film. E se riprendere dei dialoghi che non creano un vero senso ma sono espressione di alcune persone in un momento storico è perfetto in un documentario, in un’opera di finzione non fa che far perdere lo spettatore, che continua a chiedersi dove vada a parare quel che vede. 

Questo sarebbe un dettaglio se solo non fosse l’ossatura principale del film, se non occupasse così tanti minuti da non lasciare spazio invece a quello che sarebbe stato più interessante vedere, cioè come questo regista che ha cambiato molto di quello che crediamo possa essere un documentario, lavora sulla parte puramente finzionale, cioè per esempio come dirige attori e crea immagini artefatte. Ce lo si ricorda quando uno dei soldati, ripreso quasi a filo di piombo (cioè dall’alto), si rannicchia in posizione fetale durante il conflitto a fuoco. Per un attimo siamo fuori dall’imitazione del documentarismo (addirittura anche la sparatoria sembra accadere indipendentemente dalla regia) e dentro un film.

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