I dannati, la recensione | Cannes 77
Un film di finzione che sembra un documentario, ma è sempre lo stesso ibrido di Minervini. I dannati è meglio in teoria che in pratica
La recensione di I dannati, il film di Roberto Minervini presentato in Un certain regard a Cannes e subito in sala
Per tutto I dannati un plotone di soldati in marcia cammina, risolve piccoli problemi, a un certo punto cerca di sopravvivere a una sparatoria (unico attimo in cui c’è un’azione) e soprattutto dialoga. Da sempre interessato all’America che nessuno racconta qui Minervini espone cosa pensano gli americani di comunità, religione, differenze sociali e ricerca della felicità. In quell’America lì, spezzata in due, si fanno discorsi e si dicono cose che, non a caso, stanno bene anche nell’America polarizzata di oggi. Non serve sapere altro, non c’è background dei personaggi, non sappiamo come si chiamano, non sappiamo da dove vengono o cosa vogliono. Non sono personaggi proprio, sono soggetti parlanti senza identità che in quanto tali esprimono idee che sono espressione del sentire comune (o almeno di alcune versioni del sentire comune).
Questo sarebbe un dettaglio se solo non fosse l’ossatura principale del film, se non occupasse così tanti minuti da non lasciare spazio invece a quello che sarebbe stato più interessante vedere, cioè come questo regista che ha cambiato molto di quello che crediamo possa essere un documentario, lavora sulla parte puramente finzionale, cioè per esempio come dirige attori e crea immagini artefatte. Ce lo si ricorda quando uno dei soldati, ripreso quasi a filo di piombo (cioè dall’alto), si rannicchia in posizione fetale durante il conflitto a fuoco. Per un attimo siamo fuori dall’imitazione del documentarismo (addirittura anche la sparatoria sembra accadere indipendentemente dalla regia) e dentro un film.