I care a lot, la recensione
I care a lot è un film che intrattiene, che appassiona, e che ad ogni scena ti trascina con foga verso quella successiva.
I care a lot è il ritratto delirante dell’altrettanto delirante imprenditrice Marla Grayson, la cui determinazione irrora e contamina ogni cosa con cui entri in contatto. Marla è, sostanzialmente, il peggio del peggio. La spregevolezza fatta a persona, un personaggio quasi impossibile da digerire, men che meno in quest’epoca storica di famiglie separate dal virus: il suo business consiste infatti nel fare da tutore legale ad anziani incapaci intendere di volere, che rinchiude in strutture di cura per drenargli i conti bancari ed espropriarli dei loro averi. Il tutto impedendo alle famiglie di vederli e di contattarli e con dalla sua il potere di ricattarli fisicamente e mentalmente grazie a una rete di contatti medici ed ospedalieri pronti ad eseguire i suoi ordini, che siano stordirli di medicine o lasciarli senza cibo per ricattarli. Il suo mondo cambierà per sempre quando, insieme alla sua socia e compagna Fran (Eiza González) sceglierà malauguratamente di mettere in una casa di cura l'anziana Jennifer (Dianne Wiest) una donna senza alcuna famiglia o eredi e piena di soli.
Tra egoismo e cupidigia, la parabola di Marla è quella di una self-made woman che fa sfociare nel crimine le premesse del grande sogno americano. Per intenderci, la retorica per cui se sei abbastanza determinato ed egoista diventerai qualcuno (ovvero farai un sacco di soldi). Se questa retorica trita e ritrita del mondo diviso in prede e predatori, qui affermata a grandi lettere dalla voce narrante iniziale, annoia e anche un po’ stomaca, in questo senso la novità di I care a lot sta nella coraggiosa svolta al negativo del women power. Quelle messe in scena da I care a lot sono infatti donne estremamente spietate, che fanno paura sì per la loro determinazione ma soprattutto perché sono, banalmente, al limite della sociopatia. Nel rappresentare un modello di autoaffermazione aggressiva (appunto predatoriale), J Blakeson ribalta il quadro di riferimento per portare l’empowerment a un inedito livello di amoralità. Fregandosene, finalmente, del buonismo.