I care a lot, la recensione

I care a lot è un film che intrattiene, che appassiona, e che ad ogni scena ti trascina con foga verso quella successiva.

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Da quando, negli ultimi vent’anni, gli antieroi hanno invaso il piccolo e il grande schermo, la fiction ci ha abituato ed empatizzare con personaggi spregevoli, odiosi, meschini. Sostanzialmente, personaggi privi di scrupoli, volti soltanto alla realizzazione personale (quasi sempre a scapito di chi li circonda). In I care a lot, film scritto e diretto da J Blakeson, la protagonista Marla (una sublime Rosamund Pike) si fa esempio estremo di questa esposizione partecipata al male: tuttavia se da una parte I care a lot sfrutta con intelligenza le potenzialità di un personaggio tremendamente controverso, dall’altra si lascia scappare un po’ troppo la mano, annientando l’empatia a qualsiasi livello e facendoci desiderare costantemente la sua sconfitta (laddove gli antieroi hanno comunque almeno un difetto, una pecca, un qualcosa che ci lascia intravedere un briciolo di umanità e ci fa stare dalla loro). Nonostante ciò, I care a lot è un film che intrattiene, che appassiona, e che ad ogni scena ti trascina con foga verso quella successiva.

I care a lot è il ritratto delirante dell’altrettanto delirante imprenditrice Marla Grayson, la cui determinazione irrora e contamina ogni cosa con cui entri in contatto. Marla è, sostanzialmente, il peggio del peggio. La spregevolezza fatta a persona, un personaggio quasi impossibile da digerire, men che meno in quest’epoca storica di famiglie separate dal virus: il suo business consiste infatti nel fare da tutore legale ad anziani incapaci intendere di volere, che rinchiude in strutture di cura per drenargli i conti bancari ed espropriarli dei loro averi. Il tutto impedendo alle famiglie di vederli e di contattarli e con dalla sua il potere di ricattarli fisicamente e mentalmente grazie a una rete di contatti medici ed ospedalieri pronti ad eseguire i suoi ordini, che siano stordirli di medicine o lasciarli senza cibo per ricattarli. Il suo mondo cambierà per sempre quando, insieme alla sua socia e compagna Fran (Eiza González) sceglierà malauguratamente di mettere in una casa di cura l'anziana Jennifer (Dianne Wiest) una donna senza alcuna famiglia o eredi e piena di soli.

Tra una leggera ironia e una serissima vocazione crime, I care a lot ha un ritmo sorprendente in tutta la prima parte, che ti aggancia e ti coinvolge senza darti un attimo di tregua. E, distraendoti con la costruzione delle strane premesse, non ti lascia il tempo di capire quale strana direzione prenderà. Fino a qui tutto è praticamente perfetto, dai dialoghi alla alla regia, in un tripudio di cattiveria e menefreghismo di cui Rosamund Pike è la regina indiscussa (con quel sorriso glaciale che fa gelare il sangue) ma in cui ogni attore risplende, Peter Dinklage e Dianne Wiest in primis. Tuttavia è proprio quando l’adrenalina cala e la storia si assesta che I care a lot si perde su svolte un po’ troppo prevedibili, poco sorprendenti rispetto alle incredibili premesse, che sgonfiano l’entusiasmo iniziale. I care a lot rimane un film molto buono, ma ci fa comunque un po’ mangiare le mani rispetto a quello che potrebbe essere stato se avesse preso una direzione anche solo un po’ più pazza. Pazza o delirante come il suo personaggio.

Tra egoismo e cupidigia, la parabola di Marla è quella di una self-made woman che fa sfociare nel crimine le premesse del grande sogno americano. Per intenderci, la retorica per cui se sei abbastanza determinato ed egoista diventerai qualcuno (ovvero farai un sacco di soldi). Se questa retorica trita e ritrita del mondo diviso in prede e predatori, qui affermata a grandi lettere dalla voce narrante iniziale, annoia e anche un po’ stomaca, in questo senso la novità di I care a lot sta nella coraggiosa svolta al negativo del women power. Quelle messe in scena da I care a lot sono infatti donne estremamente spietate, che fanno paura sì per la loro determinazione ma soprattutto perché sono, banalmente, al limite della sociopatia. Nel rappresentare un modello di autoaffermazione aggressiva (appunto predatoriale), J Blakeson ribalta il quadro di riferimento per portare l’empowerment a un inedito livello di amoralità. Fregandosene, finalmente, del buonismo.

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