I Am Vanessa Guillen, la recensione
Ricostruendo una vicenda importante e di per sé molto toccante, I am Vanessa Guillen la carica di eccessivo pietismo
La nostra recensione di I Am Vanessa Guillen, dal 17 novembre su Netflix
Il documentario di Christy Wegener riscostruisce una recente vicenda molto nota e importante negli Stati Uniti. Ventenne di origine messicana, Vanessa Guillen si arruola nell'esercito venendo collocato nella base militare di Fort Hood, in Texas, già nota per abusi e maltrattamenti al suo interno. Un giorno scompare senza lasciare traccia, e così i suoi famigliari, composta da madre e altre due sorelle, cercano di riscostruire l'accaduto. Scopriranno che è stata molestata e uccisa da un soldato. L'indagine viene condotta da una struttura interna, la U.S. Army Criminal Investigation Command (CID), che cerca in tutti i modi di insabbiare la vicenda, respingendo le accuse di violenze. Così, i parenti mobilitano l'opinione pubblica, si organizzano sit in di protesta, fino a quando riescono a far passare una legge che consente a investigatori esterni di indagare sui crimini sessuali dell’esercito.
Così, di fronte a un quadro già di per sé toccante e molto forte, il film eccede in pietismo, soprattutto nella reiterazione di malinconici ricordi della cara scomparsa. Inoltre, se il crimine è da attribuire a un singolo soldato, in una cattiva condotta ampiamente diffusa e pervasiva, il film sembra teorizzare una netta separazione tra cittadini "buoni" (le tante persone che sostengono la causa, esplosa sui social) e le istituzione "cattive", restie a guardare il marcio al loro interno e a provare a cambiare qualcosa. Una divisione un po' troppo semplicistica.
La parte più interessante di I am Vanessa Guillen rimane allora quando lo sguardo passa da privato al pubblico, attraverso delle riflessioni che coinvolgono l'intera storia degli Stati Uniti, tutto quello su cui resta ancorato al passato, legato ad antiche tradizioni, non più adatte alla contemporaneità. Questo squarcio "oscuro" e profondo è però lasciato troppo sullo sfondo, perché nella sostanza il documentario preferisce sul finale soffermarsi sui raggi di luce che la vicenda propone, su come l'accaduto e la memoria di Vanessa possano essere leva per fare qualcosa di buono. A una visione critica ne subentra una più rassicurante e in definitiva 90 minuti risultano troppi per un film con una struttura simile a un reportage giornalistico.