Hustle, la recensione

Hustle, più che essere un film che parla di basket, è un film di basket. Juancho Hernangomez non dirà più di tre frasi in tutto il film, ma non serve: è bellissimo vederlo giocare e per quanto le azioni siano ripetute non ci si annoia mai.

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La recensione Hustle, su Netflix dal 8 giugno

C’è un grande ed evidente motivo per cui Hustle funziona così bene nonostante la sua estrema banalità: che lo vogliate o meno, si chiama Adam Sandler. Un po’ spaccone e un po’ imbroglione ma ben ripulito di ogni demenzialità, Sandler vesteinfattiin questo linearissimo film sul mondo NBA non solo i panni evocati dal titolo - quelli appunto dell’hustler - ma i suoi abiti attoriali più fedeli, riuscendo ad aggiungere sostanza e profondità laddove né la trama né la spinta moralistica riescono ad arrivare.

Ambientato tra le fila dei Philadelphia 76ers pescando qua e là tra le vere personalità della squadra e altri cestisti/personaggi NBA, Hustle racconta con evidente amore per la sua materia (e anche questo è un evidente pregio) la storia di due uomini che attraverso il basket cercano un riscatto personale e che fidandosi l’uno dell’altro trovano la forza di inseguire i loro sogni. I due personaggi in questione sono Stanley (Adam Sandler) e Bo Cruz (Juancho Hernangómez), il primo uno scout ed ex giocatore che vorrebbe diventare coach, l’altro un giovane talento che ha bisogno di qualcuno che creda in lui. Notato in Spagna su un campo di periferia, Bo viene portato da Stanley negli USA per farlo acquistare dalla squadra: incontrate tuttavia severe resistenze da parte della dirigenza, Stanley allenerà personalmente Bo per dimostrare al mondo quanto il suo pupillo (e così anche lui stesso) valga davvero.

Se, da una parte, Hustle è un riciclo continuo e anche un po’ svogliato dei tropes del film sportivo - che sia nel tipo di conflitti che crea, nei modi in cui essi si risolvono e nella struttura stessa della trama - dall’altra il regista Jeremiah Zagar riesce a fluttuare sopra tutto questo con una lodevole nonchalance, rendendo la prevedibilità qualcosa di a suo modo piacevole (o semplicemente confortevole). Questo accade non perché Zagar sia dotato di chissà quale firma riconoscibile, ma perché la sua regia si concentra tantissimo sul fare al meglio una cosa, facendola decisamente bene: rendere nel modo più vivo ed esperienzale possibile i momenti di puro gioco e di allenamento. 

In questo senso si può allora dire che Hustle, più che essere un film che parla di basket, è un film di basket. Juancho Hernangomez non dirà più di tre frasi complete in tutto il film, ma non serve: è bellissimo vederlo giocare e per quanto le azioni siano quasi sempre le stesse non ci si annoia mai. Adam Sandler regge su di sé, invece, tutto il peso della credibilità: perfettamente misurato (senza più bisogno di eccessi) nel disagio di un uomo che nasconde una voglia di vincere bruciante, si fa portatore serio di una moralità più che banale ma che in lui diventa un credibile convincimento. Lo slogan, ovviamente, è “mai arrendersi”. Niente di più semplice, e va bene così.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Hustle? Scrivetelo nei commenti!

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