Hustle, la recensione
Hustle, più che essere un film che parla di basket, è un film di basket. Juancho Hernangomez non dirà più di tre frasi in tutto il film, ma non serve: è bellissimo vederlo giocare e per quanto le azioni siano ripetute non ci si annoia mai.
C’è un grande ed evidente motivo per cui Hustle funziona così bene nonostante la sua estrema banalità: che lo vogliate o meno, si chiama Adam Sandler. Un po’ spaccone e un po’ imbroglione ma ben ripulito di ogni demenzialità, Sandler vesteinfattiin questo linearissimo film sul mondo NBA non solo i panni evocati dal titolo - quelli appunto dell’hustler - ma i suoi abiti attoriali più fedeli, riuscendo ad aggiungere sostanza e profondità laddove né la trama né la spinta moralistica riescono ad arrivare.
Se, da una parte, Hustle è un riciclo continuo e anche un po’ svogliato dei tropes del film sportivo - che sia nel tipo di conflitti che crea, nei modi in cui essi si risolvono e nella struttura stessa della trama - dall’altra il regista Jeremiah Zagar riesce a fluttuare sopra tutto questo con una lodevole nonchalance, rendendo la prevedibilità qualcosa di a suo modo piacevole (o semplicemente confortevole). Questo accade non perché Zagar sia dotato di chissà quale firma riconoscibile, ma perché la sua regia si concentra tantissimo sul fare al meglio una cosa, facendola decisamente bene: rendere nel modo più vivo ed esperienzale possibile i momenti di puro gioco e di allenamento.
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