Hunger Games: La ballata dell'usignolo e del serpente, la recensione
La ballata dell'usignolo e del serpente cerca di replicare in pieno Hunger Games senza trovare nulla di quello che rendeva il film memorabile
La recensione di Hunger Games: La ballata dell'usignolo e del serpente, il prequel della serie Hunger Games, nei cinema dal 15 novembre
La medesima struttura di Hunger Games (il primo film) insiste di più sul lato del linguaggio mediatico, perché la prospettiva è di Snow, idea efficace, specialmente nelle sovrapposizioni con i talent show del nostro mondo, che tuttavia una scrittura terribile distrugge fin da subito (ad adattare il romanzo di Suzanne Collins ci sono il rammendatore di copioni americani Michael Arendt e il terribile Michael Lesslie, già responsabile del pasticciato Assassin’s Creed). Ma a sfiancare davvero è la pigrizia della struttura. Le dinamiche del primo film sono replicate fedelmente con personaggi equivalenti in tutto e per tutto e chi si presenta come una novità, cioè Peter Dinklage, è ben presto marginalizzato. Ma anche al di là delle aspirazioni di novità il vero fallimento di La ballata dell’usignolo e del serpente è il non riuscire a fornire l’illusione che possa succedere di tutto. Il pubblico è ben conscio che non potrà che andare a finire bene per Snow, perché conosciamo il suo destino, tuttavia l’ambizione di schiacciare la logica con la capacità delle singole scene di rimettere in discussione ciò che sappiamo, creando l’impressione che tutto sia possibile, è lontanissima dall’essere raggiunta. È sempre evidente che nulla potrà davvero andare male e noi siamo abbandonati con questa pessima sceneggiatura recitata senza vita.
Così anche l’intento tipico dei sequel e prequel peggiori, cioè replicare esattamente i punti di forza del film di successo amplificandoli, è l’unico senso di questo film. C’è la stessa medesima posta in gioco di sempre ma senza quella fondamentale tensione verso l’inizio dei giochi che alimentava l’interesse in Hunger Games (e non stupisce perché la regia di Francis Lawrence faticava a farlo già negli altri film che aveva curato) e senza l’affezione verso i tributi (così macchiette da dividersi in cattivi e insopportabilmente deboli). Questo è reso complicato dal fatto che il più protagonista di tutti è Snow (un incolore Tom Blyth), il cui obiettivo non è proprio il tipo di tensione narrativa per la quale si può fremere senza un lavoro sopraffino di scrittura, tempi e regia.
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