Hunger Games: La ballata dell'usignolo e del serpente, la recensione

La ballata dell'usignolo e del serpente cerca di replicare in pieno Hunger Games senza trovare nulla di quello che rendeva il film memorabile

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Hunger Games: La ballata dell'usignolo e del serpente, il prequel della serie Hunger Games, nei cinema dal 15 novembre

Tutto quello che può andare storto in un prequel di Hunger Games è andato storto. La ballata dell’usignolo e del serpente è la riproposizione delle dinamiche percepite come vincenti nella saga principale (e in particolare nel primo film) in una versione più blanda. Stavolta i protagonisti sono due invece di uno, e i loro destini coincidono solo fino a un certo punto perché sono da lati diversi della barricata. Uno, come noto, è il presidente Snow quando non era presidente ma solo un giovane nobile decaduto che frequenta gli alti ranghi in cerca di una maniera per fare strada e mantenere la famiglia nel distretto principale di Panem. L’altra è un tributo del distretto 12, lo stesso in cui vivrà Katniss Everdeen, anche lei riottosa, di gran carattere e quindi buona per la televisione. Come parte dell’elite Snow viene incaricato di lavorare ai nascenti Hunger Games (ancora nelle prime edizioni) e insieme ai suoi pari prende in consegna un tributo da aiutare mediaticamente. 

La medesima struttura di Hunger Games (il primo film) insiste di più sul lato del linguaggio mediatico, perché la prospettiva è di Snow, idea efficace, specialmente nelle sovrapposizioni con i talent show del nostro mondo, che tuttavia una scrittura terribile distrugge fin da subito (ad adattare il romanzo di Suzanne Collins ci sono il rammendatore di copioni americani Michael Arendt e il terribile Michael Lesslie, già responsabile del pasticciato Assassin’s Creed). Ma a sfiancare davvero è la pigrizia della struttura. Le dinamiche del primo film sono replicate fedelmente con personaggi equivalenti in tutto e per tutto e chi si presenta come una novità, cioè Peter Dinklage, è ben presto marginalizzato. Ma anche al di là delle aspirazioni di novità il vero fallimento di La ballata dell’usignolo e del serpente è il non riuscire a fornire l’illusione che possa succedere di tutto. Il pubblico è ben conscio che non potrà che andare a finire bene per Snow, perché conosciamo il suo destino, tuttavia l’ambizione di schiacciare la logica con la capacità delle singole scene di rimettere in discussione ciò che sappiamo, creando l’impressione che tutto sia possibile, è lontanissima dall’essere raggiunta. È sempre evidente che nulla potrà davvero andare male e noi siamo abbandonati con questa pessima sceneggiatura recitata senza vita.

Tutto questo fa di La ballata dell’usignolo e del serpente un film molto più complicato da realizzare rispetto a Hunger Games. Ha una storia alla quale è più difficile interessarsi e nessuna capacità di lavorare sul rapporto tra ambienti e personaggi (che era uno dei molti punti su cui Gary Ross aveva fondato il proprio film, dislocare i personaggi) per superare le difficoltà dell’intreccio e creare nel pubblico l’immagine che servirebbe: quella dell’inevitabile distruzione di ogni speranza nel domani. Non aiuta chiaramente non avere Jennifer Lawrence, che era una pedina fondamentale nel creare la complessità di quei film. Rachel Zegler, che ha un ruolo sovrapponibile, non capisce il personaggio e non è capace di incarnare il contrasto tra una determinazione di ferro (che pure il suo personaggio avrebbe) e un vero onesto terrore di morire, in modo che il secondo alimenti la prima creando lo status di eroina.

Così anche l’intento tipico dei sequel e prequel peggiori, cioè replicare esattamente i punti di forza del film di successo amplificandoli, è l’unico senso di questo film. C’è la stessa medesima posta in gioco di sempre ma senza quella fondamentale tensione verso l’inizio dei giochi che alimentava l’interesse in Hunger Games (e non stupisce perché la regia di Francis Lawrence faticava a farlo già negli altri film che aveva curato) e senza l’affezione verso i tributi (così macchiette da dividersi in cattivi e insopportabilmente deboli). Questo è reso complicato dal fatto che il più protagonista di tutti è Snow (un incolore Tom Blyth), il cui obiettivo non è proprio il tipo di tensione narrativa per la quale si può fremere senza un lavoro sopraffino di scrittura, tempi e regia.

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