Hunger, la recensione

La storia di Hunger è quella che ci si può aspettare, ma tutto il suo contesto e il suo desiderio di dire altro con le immagini no

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Hunger, il film di cucina tailandese che è disponibile dall'8 aprile su Netflix

Non bisogna farsi ingannare dal look. Hunger si presenta con la stessa identica fotografia, con le stesse scenografie e con lo stesso montaggio del cinema internazionale occidentale. È proprio pensato per confondersi senza problemi tra i film di Netflix e somigliare a qualcosa di noto, anche se dentro è profondamente tailandese. E non bisogna farsi ingannare nemmeno nella tipica storia di una cuoca di strada, impiegata a far piatti di rapido consumo in un ristorante a conduzione familiare che viene notata da un vice chef di un ristorante stellato e così introdotta al mondo della cucina di lusso, fatta soprattutto di una grande ambizione ad essere migliori, cambiare, evolversi. Sembra una trama americana ma dentro questo film di Sitisiri Mongkolsiri (il terzo oltre a due serie TV) c’è qualcosa di diverso.

L’inizio riprende in toto Whiplash, non solo per gli assoli di batteria di sottofondo a creare tensione e non solo per la dinamica di lode, innalzamento e poi umiliazione davanti a tutti, ma anche per l’equivalenza tra la dedizione, la sofferenza e il miglioramento di un talento. Poi però la storia di questa ragazza che impara in fretta (pure troppo) la cucina stellata, diventa una parabola sulla società tailandese e sulle differenze sociali. Senza aver ancora guadagnato un soldo la sola conoscenza e ampliamento degli orizzonti crea una frattura tra la protagonista di Hunger e il mondo da cui viene. Non è più come la sua famiglia e i suoi amici perché ha visto di meglio, ha visto cosa consentono le aspirazioni se le si segue e adesso non riesce a fare finta di nulla. Poi però il film mostra anche un altro tipo di differenza sociale.

In Thailandia la cucina stellata è materia per le élite, viene fatta non solo nei ristoranti, ma nelle feste e negli eventi. È il mangiare dell’1% dei ricchissimi che sfoggiano piatti mai visti prima per farsi belli tra pari. Essere un cuoco audace, che ambisce, vuol dire cucinare e frequentare queste persone. L’alta cucina è disuguaglianza sociale, la porta d’ingresso in un altro mondo con altre regole, eliminazioni e competizione, fatto di tribù che includono o escludono a seconda della convenienza. L’idea geniale è che quando i ricchi mangiano le pietanze che il grande chef Paul ha preparato per loro si trasfigurano. La cucina stellata, buonissima e succulenta, rivela la loro natura di predatori che azzannano e si sporcano di sangue. Altre mangiare li fa apparire comparse di un mondo decadente, come se la cucina fosse un’arma e i piatti cucinati avessero la finalità di far cadere delle maschere. Eccezionale.

Ci saranno gli allontanamenti e le riconciliazioni che ci devono essere, l’ascesa, il successo, i problemi e poi i grandi scontri con quelli che una volta erano mentori. Tutto secondo le solite regole. Sitisiri Mongkolsiri sembra conoscere così bene il cinema di riferimento da sapere anche che tutto ciò che conta sta negli anfratti, in come sono risolte le singole scene e nelle scelte visive. Non nell’intreccio. Immaginare il fatto che i ricchi non mangiano per fame ma per affermare uno status e che quindi non si cibano effettivamente delle pietanze ma mangiano quegli chef, il loro status e il loro allure, è fantastico. Renderlo per immagini è roba da vero cineasta. Poi un finale sullo sguardo della protagonista, così intenso e dedicato anche in uno scenario diverso, richiama il finale dei film horror in cui la minaccia sconfitta in realtà non muore mai, è sempre lì. Una volta assaggiato il mondo dell’eccellenza e la possibilità di fare di meglio, scalare, ambire e riuscire, non se ne può più fare a meno.

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