Hugo Cabret, la recensione

Il film per tutta la famiglia di Scorsese è un grosso ricalco sul modello spielberghiano che a un certo punto diventa un quasi-documentario sulle origini del cinema...

Critico e giornalista cinematografico


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Dalle voci che arrivavano dall'America e dai territori in cui il film è già uscito Hugo Cabret sembrava dover essere un nuovo inizio per Scorsese e una mirabolante lezione di storia del cinema. Tutte aspettative purtroppo deluse da un film impeccabile ma noiosetto, vivace ma di certo poco significativo.

Tutto inizia da un libro parzialmente illustrato che racconta la storia di un bambino che vive nella stazione dei treni di Parigi all'inizio del secolo scorso, e della legame che stringe con il giocattolaio locale. I due sono entrambi appassionati di oggetti meccanici, in particolare il bambino è in possesso di un "automa", cioè un pupazzo dalle fattezze umane ma pieno di ingranaggi, progettato per fare una cosa sola, scrivere. Il pupazzo però è rotto, era stato trovato dal padre del protagonista (ora morto) e il bambino cerca disperatamente di farlo funzionare per scoprire come mai il padre ne fosse ossessionato. Questa trama, che appare come quella centrale, sarà ad un certo punto accantonata per inseguire la storia del giocattolaio, il suo passato e la sua altra vita.

Hugo Cabret appare quindi come un grande pretesto per parlare della storia del cinema, farlo con gusto, passione e un pizzico di ruffianeria, quella stessa ruffianeria che si riscontra in Charlot (il film di Richard Attenborough). Con scenografie mastodontiche e sfrenate di Dante Ferretti, che qualche volta sembra aver preso la mano, una fotografia di Robert Richardson, carica di luci provenienti dall'esterno e battenti sui volti esterrefatti dei personaggi, che dona al film un tono da pellicola spielberghiana, Hugo Cabret è una favola raccontata da uno che le favole non le ama troppo e che si dimostra molto più interessato agli esordi del cinema.

 

Eppure un conto è un documentario, in cui il resoconto appassionato può farsi foriero di infiniti livelli di lettura, un conto è un film di finzione, in cui ogni didascalismo appare superfluo, insistito e quasi offensivo. Specie se, come in questo caso, oscura tutto il resto, ovvero il gioco tra i personaggi e quella sofisticazione di racconto che solitamente è la regola nei film di Scorsese e che qui lo spettatore cerca invano per tutto il film.

Non solo non c'è nulla in questo film del grande Martin Scorsese, non c'è nemmeno nulla di nuovo che giustifichi l'abbandono della propria poetica. Hugo Cabret si muove nei territori dello stupore davanti al magnifico in cui si destreggiano i film di Spielberg e Zemeckis ma manca totalmente di "voglia di credere" e questo fa apparire ogni momento futile e realizzato senza mai crederci davvero, come per senso del dovere. Il miglior Scorsese è quello che riprende momenti e storie di cui teme e rispetta sul serio le implicazioni morali, qui non c'è traccia di quella compartecipazione.

Una delusione a parte è invece quella del 3D, lodato a più riprese da Scorsese e, sembrava dalle interviste, utilizzato a livelli nuovi e autoriali. Purtroppo tutto questo non avviene se non in una delle scene conclusive quando un'orazione del giocattolaio interpretato da Ben Kingsley ha un aumento di profondità nel momento cruciale. Un movimento di macchina ad avvicinarsi che cambia la tridimensionalità della scena con uno straniamento molto efficace. Un piccolo lampo in un film altrimenti grigio.

 
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