House of Gucci, la recensione

Uno dei film migliori sulla fine di un'era del capitalismo e l'inizio di un'altra, in cui il grottesco è lo strumento migliore per comprendere gli eventi

Critico e giornalista cinematografico


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House of Gucci, la recensione

Se esistesse una scala di rilevazione per misurare quanto una storia vera sia stata romanzata, House Of Gucci potrebbe anche rompere il misuratore. È stato scritto (anche molto bene a tratti) esattamente per questo.

L’idea per raccontare le vicende della famiglia Gucci dal momento in cui è entrata a farne parte Patrizia Reggiani è di spingere sul grottesco come molti film su fatti e personaggi reali hanno fatto in questi anni, specialmente quando si parla di affari e capitalismo (a partire da The Wolf Of Wall Street). Ed è un’idea vincente. La cornice grottesca del film appare subito come una delle maniere migliori per ritrarre eventi paradossali già di loro e per inventare, creare, modificare, piegare e ridicolizzare il mondo degli intrighi familiari in un’epoca in cui la nobiltà capitalista è sotto attacco da altre forze.

Lungo tutto il film Ridley Scott ritrae i Gucci sempre di più con i tratti che hanno le famiglie mafiose al cinema, cioè unendo il basso e l’alto, il rude con il sofisticato, il burino con l’elegante, il denaro con il pacchiano. Se un senso può uscire dalla storia di come le manipolazioni di una donna in cerca di ascesa sociale in una delle più nobili famiglie dell’alta moda, è questo: la fine di un’era, quella delle grandi famiglie e delle ascese sociali, per fare posto ad un’altra fatta di gruppi stranieri. Per arrivare a questo l’arma che il film sceglie sono gli attori sui quali, è evidente, c’è stato un grandissimo lavoro (ed è probabile che un cast così prestigioso una volta tanto si sia migliorato a vicenda).

Sole attorno a cui tutto gira è Patrizia Reggiani, cioè Lady Gaga, di nuovo bravissima dopo A Star Is Born e stavolta non solo centrata ma anche capace di lavorare sulla complessità. Sul suo sguardo infuocato di desiderio (solo fintamente sessuale ma in realtà economico) si fonda la parte migliore del film, la prima, quella in cui è mostrato il corteggiamento tra Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani. Non solo è lei a guidare la dinamica, arrivando dove vuole, ma è mostrato molto bene, senza dirlo, che ci arriva anche come lo vuole, facendo in modo che sia sempre lui a pensare di aver fatto le mosse importanti e aver guidato. Così capiamo gli eventi, capiamo il rapporto ma soprattutto capiamo lei, la grinta e la forza di una donna che ci viene presentata davanti ad un manipolo di camion (e camionisti).

Ma è eccezionale anche la maniera in cui Adam Driver non reciti quasi mai con il parlato (solo verso la fine e infatti funziona meno) ma, defilato, usi una postura e dei movimenti elegantissimi per separarsi da tutti, specialmente da Patrizia Reggiani, elettrica ed esagerata. Scott, che è un regista di immagini, una volta tanto lavora di attori e lascia a sé il compito di incastrarli in luoghi e scenografie che li supportino (incredibile il lago di fumo della gita in barca, bellissimo lo stabilimento dei Reggiani o la casa di Rodolfo Gucci), luoghi che raccontano sempre la distanza tra classi e la differenza tra nobiltà imprenditoriale e artistica e il resto del mondo.

Avanzando purtroppo il film non tiene l’equilibrio del grottesco, punta troppo sulle frasi ad effetto (“Padre, figlio e famiglia Gucci”, “È ora di fare pulizia”, “Non mi ritengo una persona particolarmente morale”) e si innamora dell’essere sopra le righe. Il Paolo Gucci di Jared Leto (attore terribile che qui risalta nella sua incapacità di capire i film e nella maniera in giochi da solo) è il simbolo di questa mancanza di equilibrio e sbilancia tutto sulla farsa.

Rimane lo stesso uno dei migliori film dei nostri anni sul capitalismo spietato, uno in cui un mostro piccino e quasi tenero (Patrizia Reggiani), figlia della piccola imprenditoria che ragiona come nel medioevo, è ridicolizzato nei suoi tentativi sciocchi da un mostro più preciso e moderno, i grandi gruppi che soppiantano in pochissimo la gestione familiare per far trionfare il capitalismo spinto.

NOTA: Come tutti i film anche questo arriva in Italia doppiato. In originale gli attori parlano con un pesante e intenzionale accento italiano che tuttavia, soprattutto nel caso di Lady Gaga, risulta più slavo o nordeuropeo che altro. È una stortura che funziona poco e non fa che enfatizzare i problemi che già esistono, aggiungendo uno strato di stereotipi che se visti dall’estero sono in armonia con tutto il registro grottesco, dal nostro punto di vista vengono facilmente a noia, perché li (ri)conosciamo troppo. Nella sostanza è un dettaglio in più di ridicolo nel descrivere in maniera molto dura della famiglia Gucci. Nella pratica non è un problema del film ma uno che riguarda solo una minuscola parte del pubblico (gli italiani che lo vedranno in originale). Come tale è ben poco influente.

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