House of Cards (terza stagione): la recensione
House of Cards - Terzo Atto: ritorna Frank Underwood nella stagione minore della serie di Netflix
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Sometimes I think the presidency is the illusion of choice
È un gioco di prospettive, simboli, silenzi, meschine complicità quello di cui abbiamo imparato le regole nel corso dei primi due, straordinari anni della serie. Abbiamo appreso che, se il potere corrompe, "il potere assoluto corrompe in modo assoluto", e abbiamo seguito con partecipazione e malcelata soddisfazione le macchinazioni di Frank nel suo fare a pezzi la credibilità di quanti gli erano attorno per poi emergere come eroe silenzioso. Il male come giustificazione di se stesso, un "gioco del trono" più vicino a noi, che lascia i territori del fantasy per battere quelli, più familiari, ma non meno brutali, della fantapolitica. Il terzo atto di questa grande storia televisiva rinnega in parte tutto questo. È una terza stagione in cui mutano le prospettive, in cui gli assoluti diventano più incerti. Il castello di carte smette di crescere in altezza, ruota su se stesso e ci rivela un profilo più sottile e fragile, pronto a crollare al primo soffio di vento.
Frank Underwood è Presidente degli Stati Uniti, e le cose non vanno per il meglio. L'economia stenta, i livelli occupazionali stanno calando, e così gli indici di gradimento. Sulla credibilità e sulla capacità di imporsi del Presidente pesa il fatto di non essere stato eletto, ma di essere succeduto ad un capo di governo che si è dimesso. Il mezzo per uscire dall'impasse sarebbe stato individuato in un drastico e costoso provvedimento chiamato AmericaWorks, che prevede l'impiego di ingenti fondi da immettere sul mercato per favorire assunzioni e ripresa dell'economia. Biasimato dalla nazione, ostacolato dal Congresso, in difficoltà anche sul piano della politica internazionale, con una complessa situazione nella valle del Giordano e i turbolenti rapporti con il presidente russo Petrov, Frank vacilla e fatica a tenere in equilibrio i vari elementi.
È a questo punto che la scrittura, che mai così tanto aveva allargato le maglie della narrazione, fa un passo indietro e si chiude in se stessa. Frank sprofonda nel suo ruolo, tende al limite il rapporto con la moglie Claire, perde qualcosa del suo formidabile istinto da animale politico e commette più di un'ingenuità, che infine gli costerà cara. A scardinare, anche se indirettamente, questo collaudato sistema di rapporti, sarà un autore di best-seller di nome Tom Yates (Paul Sparks), incaricato da Frank di scrivere un testo sulla visione rappresentata da AmericaWorks, che il protagonista non esita a paragonare come portata al New Deal di Roosevelt. Il testo finisce ben presto per essere il manifesto di un matrimonio in cui nulla è ciò che sembra, un rapporto malsano che si regge su parole tabù che nessuno osa pronunciare, una corda tesa che arriva al punto di rottura.
Tra le difficoltà di politica interna e il non meno turbolento quadro internazionale, la scrittura del cratore Beau Willimon, che ha firmato la maggior parte degli episodi, prende respiro – o almeno quella è l'intenzione – dalle storyline secondarie. Ecco quindi il ritorno di Doug Stamper (Michael Kelly), tutt'altro che fuorigioco e determinato ad aiutare Frank, ma anche l'aiuto di Gavin Orsay (Jimmy Simpson) che cerca di rintracciare Rachel, in fuga dopo l'ultimo season finale, e ancora l'introduzione della giornalista del Wall Street Telegraph Kate Baldwin (Kim Dickens) e infine il ruolo ambiguo giocato dietro le quinte da Jackie Sharp (Molly Parker) e Remy Danton (Mahershala Ali).
You can't turn a no to a yes without a maybe in between
Frank Underwood ha spezzato le ossa alla democrazia, e quelle sono ricresciute più forti di prima. Check and balances, questa è la formula utilizzata per definire quel sistema di controlli e contrappesi che tiene in equilibrio la separazione dei poteri nei sistemi democratici, impedendo derive autoritarie. Le distese infinite di possibilità che si aprivano per l'ex Segretario di Stato e per l'ex Vicepresidente sono un muro invalicabile ora che è diventato l'uomo più potente della Terra. Per tutta la stagione, e oltre, il protagonista si dibatte tra concessioni e pressioni al sistema, indirizzando e tuonando dalla sua scrivania, ma senza poter fare molto più di questo. Schieramenti avversi, alleati incompetenti, arroganza, perfino un uragano ad un certo punto si metterà in mezzo per impedirgli di concludere il suo progetto. Ma ad ostacolarlo è soprattutto il sistema, non gli uomini che lo rappresentano.
È profondamente americana questa stagione televisiva in cui Frank visita il Roosevelt memorial e a quel Presidente si paragona – anche se la sua idea di intervento è opposta e sacrifica il welfare – ma probabilmente è più simile nelle azioni a Nixon, o almeno alle visioni generalizzate di queste figure storiche. E c'è naturalmente il sottile gioco delle candidature che tira dentro dal Congresso alla Corte Suprema, e ancora il ruolo irrinunciabile della stampa, che del potere rimane uno dei controllori principali, e infine il valore dei simboli e della propaganda (anche se probabilmente Frank nel suo programma ad un Yes, we can preferirebbe un Yes, you can) qui rappresentato dal libro mai terminato di Tom Yates. Nota a margine: rimane sempre da ammirare la capacità tutta americana di giocare con i ruoli e le istituzioni, prendendosi sul serio quel tanto che basta per non scadere nel politicamente corretto a tutti i costi e confezionando un prodotto intelligente e ben fatto.
Quindi una fotografia del potere che vale per questo, ma che vale anche come specchio riflesso verso il protagonista, che mai come stavolta si scruta e si scopre indifeso. Forse è un caso, forse no, ma questa è la stagione di House of Cards in cui Frank Underwood si rivolge di meno a noi spettatori oltrepassando la quarta parete. Lo fa in pochi, determinanti casi, alcuni divertenti – quando confessa di voler buttare Petrov giù dalle scale – altri di forte impatto – al culmine di una lite con Claire, o in una chiesa – ma decisamente di meno rispetto al passato. Può essere una mancanza di sceneggiatura, e nel caso lo è senz'altro dato che parliamo di uno dei marchi di fabbrica della serie, ma può essere anche un suggerimento sulla perdita di sicurezza di Frank.
Per buona parte della stagione, in ogni caso, il miracolo si ripeterà, e continueremo a stare dalla parte di questo autoritario e diabolico assassino. È la sindrome di Walter White, è il motivo per il quale non si può fare a meno di ammirare Petyr Baelish, ed è la rassicurante conferma che (nei prodotti di finzione!) la scrittura acuta e l'intelligenza dei personaggi possono sollevare un'ammirazione che va al di là del facile ricatto morale, dell'insegnamento a tutti i costi, per il semplice fatto di provare soddisfazione nel vedere un prodotto ben fatto. Questo è Frank Underwood: il protagonista di una storia bella non perché edificante, non perché ci vuole arricchire in qualche modo, ma perché curata e degna di essere raccontata.
I'd push him down the stairs and light his broken body on fire just to watch it burn, if it wouldn't start a world war
Viktor Petrov è la nemesi ideale di Frank Underwood. L'obiettivo concreto, di carne e sangue, ben più facile da identificare e combattere rispetto alle maglie della politica americana. In un altro universo, i due Presidenti sarebbero nati l'uno nel Paese dell'altro, e si sarebbero comunque finiti per incontrare nelle stesse circostanze diplomatiche, ma a parti invertite. Sotto una patina di autoritarismo mascherato da democrazia battono gli stessi cuori, la stessa sfrontatezza, la stessa capacità di sporcarsi le mani. Petrov, il tema del riconoscimento dei diritti civili e il complesso scacchiere internazionale sono ovviamente modellati su Putin e su fatti ben noti, ma anche in questo caso, come per la politica interna, House of Cards rimane una serie che parla di uomini prima che di eventi. E lo fa spesso in modo sottile, come nella gelosia di Meechum nei confronti di Tom, come nel paragone che Claire traccia fra il prigioniero politico omosessuale e lo stesso Frank.
Il bacio che Petrov ruba a Claire ha tanto valore quanto le proteste delle pussy riot alla cena diplomatica, il sigaro che il presidente russo spegne con disprezzo sulle mura della Casa Bianca vale quanto l'incontro tra i due nella valle del Giordano. C'è la politica internazionale, ma ci sono anche due uomini molto simili che si confrontano. In più di un momento la scrittura sembra anticipare lo scoppio di una guerra che in conclusione non arriverà, lasciando il posto ad una risoluzione anche abbastanza frettolosa e non del tutto soddisfacente, date le premesse, ma il cammino per arrivare fino a quel punto segna le tappe migliori del viaggio lungo la terza stagione. Tre incontri per altrettanti episodi: andata, ritorno e campo neutro, e alla fine dei giochi non si faranno tanto i conti di quanto si è vinto quanto delle perdite, umane e non. Tensione, grande scrittura, grandi interpretazioni. House of Cards al suo meglio, grazie anche all'ottimo lavoro di Lars Mikkelsen.
Such a shame how ruthless pragmatism gets weighed down by family values
Perché stagione minore allora? Le storie secondarie innanzitutto. Non sono mai state il punto forte della serie, anzi, ma quest'anno è difficile trovare un senso a buona parte, se non tutti gli snodi narrativi che si sviluppano al di fuori della Casa Bianca. Le vicende di Doug, ma anche degli altri personaggi, lontanissime dal carisma di Frank e dall'energia di quei momenti, erano sempre state il riempitivo irrinunciabile per spezzare la tensione e fa respirare la serie, ma quest'anno l'alternativa è mancata del tutto. Tra la riabilitazione di Doug, le bugie di Gavin, la prevedibile tresca fra Tom e Kate è difficile scegliere i momenti più sbagliati, noiosi, buttati nella serie per fare minutaggio. Nel migliore dei casi, con il libro di Tom, c'è l'indiretta influenza sul rapporto tra Frank e Claire, mentre nel peggiore, la fiacca e stanca caccia a Rachel, ci si ritroverà dopo tredici episodi al punto in cui eravamo un anno fa, prima che le cose prendessero una piega inaspettata.
Ma su tutto questo si sarebbe potuto passare tranquillamente sopra se la vicenda principale fosse stata accattivante come in passato. Così non è, e per motivi più difficili da spiegare di quanto sembra. La terza stagione di House of Cards, più delle precedenti, è incentrata sul matrimonio degli Underwood. Ciò che ha reso eccezionale, tra le altre cose, la scrittura dei primi due anni, è stata la capacità di filtrare il loro rapporto, chiudendo fuori alcuni momenti più intimi, sorvolando su considerazioni ovvie – Frank è omosessuale, il resto è apparenza, rispetto, complicità, un continuo spalleggiarsi nella strada verso il potere – e lasciando solo il meglio. Ora quella cortina si alza, e dietro quella maschera di perfezione e intoccabilità troviamo due persone molto più imperfette, presuntuose, ingenue di quanto pensavamo.
Claire combina un disastro dietro l'altro. Fallisce nel tentativo di diventare ambasciatore e si fa nominare dal marito, non riesce a far passare una risoluzione alle Nazioni Unite, lascia impiccare un prigioniero nella cella in cui si addormenta, fa saltare gli accordi con Petrov, avanza improbabili soluzioni per rimediare. E, dopo tutto questo, si lamenta di essere solo l'ombra di Frank, la sua stampella per il pubblico, lasciandolo nel momento del bisogno, spinta da un alito di vento dopo che questo matrimonio aveva resistito ad uragani. Frank da parte sua è troppo arrogante ed egocentrico, lui che è sempre stato bravissimo nel rigirarsi le persone come ha voluto: con Jackie, con Remy, con Claire, fino alle estreme conseguenze, fino a ritrovarsi solo. C'è troppa stima per la scrittura di questa serie per credere che gli errori, la vulnerabilità, anche la miopia dei protagonisti non siano voluti, ma tutto avviene in modo troppo programmato e artificioso.
House of Cards è una storia di ascesa e caduta come mille altre, e arriverà il momento della fine delle macchinazioni di Frank. Il problema è come arrivarci e farlo coerentemente con il carattere dei personaggi visti finora. L'anticlimax del banale abbandono di Claire con il quale si conclude un'annata che aveva lasciato intravedere scenari ben più drammatici taglia le gambe ad una stagione (e in una stagione rilasciata in blocco unico la conclusione è doppiamente importante) partita con altre aspettative. E nel farlo non si concede nemmeno una chiusura degna sotto il profilo degli eventi generali, con una mezza presidenza ancora da portare a termine e le primarie lontanissime dalla conclusione, e degli eventi futuri. Ancora trema la scrivania sulla quale Frank batteva le nocche nel finale dello scorso anno, ma adesso?
Da un punto di vista tecnico nulla da segnalare se non la solita meraviglia, mentre tra gli interpreti va detto che una maestosa Robin Wright è riuscita a scalzare, almeno qui, re Kevin Spacey dal suo trono. House of Cards non deve dimostrare niente, fa già parte della storia della televisione e, nonostante la critica severa su alcuni elementi, rimane una delle serie migliori là fuori. Rimane da vedere quanto durerà la magia.