House of Cards (sesta stagione): la recensione
Le nostre impressioni sulla sesta e ultima stagione di House of Cards
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Francis Underwood è morto (non è uno spoiler, è proprio la premessa della stagione). Claire, che già aveva assunto la presidenza nel finale della quinta stagione, diventa l'unica voce nel dialogo costante con gli spettatori. La attendono prove molto dure in vista delle elezioni di medio termine. Su tutte l'ingerenza, per non dire il tentativo di sabotaggio, da parte di Bill e Annette Shepard, fratello e sorella, eredi di un conglomerato aziendale molto influente. Ma questa è la stagione che muove tutti i pezzi sulla scacchiera verso la loro ultima, tragica destinazione: il fedele Doug Stamper, l'irriducibile giornalista Tom Hammerschmidt, e poi ancora Catherine Durant, Thomas Yates e gli altri.
Sta di fatto che House of Cards arriva davvero alla conclusione. Lo fa attraverso strade contorte che mescolano realtà e finzione, problemi sul set e ricadute metanarrative, l'innegabile zeitgeist che dallo scorso anno soffia su Hollywood e sulla società civile, anche come risposta ideale alla presidenza (quella vera!). Che tutto questo confluisca in questi otto episodi che soffrono le costrizioni della scrittura, gli scivoloni temporali, la troppa carne al fuoco, le digressioni inutili, è a modo suo molto affascinante. Fin da subito ci viene detto che Francis è morto. Claire vuole andare avanti, lasciar andare il dolore, non necessariamente il dolore della perdita, ma quella sofferenza che deriva dall'irrisolvibilità dei conflitti, una volta scomparsa la fonte di questi.
Già nella quarta e quinta stagione House of Cards dava segni di cedimento, e sarebbe ingiusto scoprirne i difetti solo in questa stagione. Ma i problemi ci sono. I fratelli Sheperd sono una nemesi ben modesta – e anche un po' triste – soprattutto quando la scrittura pretende di costruire un dramma anche per loro. Il calderone delle relazioni internazionali, rapporti con la stampa, macchinazioni interne e contrattazioni sottobanco è confuso e troppo veloce. Tra le puntate, a volte intervallate da mesi di buio, saltiamo da un equilibrio all'altro, e la più astuta delle macchinazioni si scioglie in un'accusa che aggiusta tutto. E ci sono molti "colpi di spugna" in una stagione che nel momento culminante risolve tutto con una scia di violenza. Interessante il modo in cui viene tratteggiato il femminismo. Claire, donna, moglie, vedova, e forse anche qualcos'altro, difende ed esalta il proprio ruolo di donna, e lo usa come arma di difesa e propaganda. Che forse è il modo più sincero per raccontare l'uguaglianza: le donne possono essere diaboliche quanto gli uomini.
Così finisce House of Cards. Una parabola in discesa, ma i segni lasciati da questa serie sono intorno a noi. Oggi è scontato che interpreti di primissimo livello possano essere protagonisti di una serie tv, nel 2013 non lo era. Oggi è consuetudine (positiva o negativa, secondo il gusto di ognuno) per vari distributori rilasciare intere stagioni in una soluzione unica, e House of Cards era lì quando tutto è iniziato.