House of Cards (sesta stagione): la recensione

Le nostre impressioni sulla sesta e ultima stagione di House of Cards

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Nel 2013 House of Cards nasceva sotto auspici molto diversi. Era il veicolo di lancio dei contenuti originali su Netflix (in Italia su Sky), si appoggiava ad un attore di grande richiamo come Kevin Spacey – che incredibilmente qui avrebbe trovato uno dei suoi ruoli più iconici – e poteva contare sulla regia di David Fincher per le prime due puntate. Ben poco è rimasto di quel debutto, se non una stanchezza di fondo e la necessità di chiudere la storia. House of Cards torna con le ultime otto puntate della sua storia: Robin Wright è magnetica, ma la scrittura perde di equilibrio e nemmeno un taglio coraggioso sull'uguaglianza tra i generi riesce a riscattare la stagione da una confusione generale.

Francis Underwood è morto (non è uno spoiler, è proprio la premessa della stagione). Claire, che già aveva assunto la presidenza nel finale della quinta stagione, diventa l'unica voce nel dialogo costante con gli spettatori. La attendono prove molto dure in vista delle elezioni di medio termine. Su tutte l'ingerenza, per non dire il tentativo di sabotaggio, da parte di Bill e Annette Shepard, fratello e sorella, eredi di un conglomerato aziendale molto influente. Ma questa è la stagione che muove tutti i pezzi sulla scacchiera verso la loro ultima, tragica destinazione: il fedele Doug Stamper, l'irriducibile giornalista Tom Hammerschmidt, e poi ancora Catherine Durant, Thomas Yates e gli altri.

Quando è terminato House of Cards? Con una provocazione, potremmo dire alla fine della scorsa stagione, con l'ultima apparizione di Kevin Spacey nella serie. Oppure ancora prima, con il finale della quarta e il primo sguardo in camera di Claire Underwood che segnava l'inizio della fine del soliloquio di Frank. Oppure, addirittura alla fine della seconda, fantastica stagione, con lo sguardo in camera di Francis nello Studio Ovale e quelle nocche sbattute sulla scrivania a segnare il trionfo sui propri avversari.

Sta di fatto che House of Cards arriva davvero alla conclusione. Lo fa attraverso strade contorte che mescolano realtà e finzione, problemi sul set e ricadute metanarrative, l'innegabile zeitgeist che dallo scorso anno soffia su Hollywood e sulla società civile, anche come risposta ideale alla presidenza (quella vera!). Che tutto questo confluisca in questi otto episodi che soffrono le costrizioni della scrittura, gli scivoloni temporali, la troppa carne al fuoco, le digressioni inutili, è a modo suo molto affascinante. Fin da subito ci viene detto che Francis è morto. Claire vuole andare avanti, lasciar andare il dolore, non necessariamente il dolore della perdita, ma quella sofferenza che deriva dall'irrisolvibilità dei conflitti, una volta scomparsa la fonte di questi.

E c'è un evidente paragone tra Francis Underwood e Kevin Spacey, che la stagione corteggia dall'inizio alla fine. Tutto è costruito per funzionare su un doppio livello, sia come valore narrativo che metanarrativo. Claire Underwood, come Robin Wright, deve ergersi in un mondo di maschi bianchi che non credono che possa prendere il posto del marito; deve dimostrare doppiamente il proprio valore, in quanto donna; eppure al tempo stesso non può emanciparsi dalla propria condizione di donna, e su questa deve puntare per trovare un senso alla propria presidenza. Tanto Robin Wright quanto Claire Underwood vincono la sfida: in una stagione con molti problemi, la protagonista è un faro che illumina ogni puntata.

Già nella quarta e quinta stagione House of Cards dava segni di cedimento, e sarebbe ingiusto scoprirne i difetti solo in questa stagione. Ma i problemi ci sono. I fratelli Sheperd sono una nemesi ben modesta – e anche un po' triste – soprattutto quando la scrittura pretende di costruire un dramma anche per loro. Il calderone delle relazioni internazionali, rapporti con la stampa, macchinazioni interne e contrattazioni sottobanco è confuso e troppo veloce. Tra le puntate, a volte intervallate da mesi di buio, saltiamo da un equilibrio all'altro, e la più astuta delle macchinazioni si scioglie in un'accusa che aggiusta tutto. E ci sono molti "colpi di spugna" in una stagione che nel momento culminante risolve tutto con una scia di violenza. Interessante il modo in cui viene tratteggiato il femminismo. Claire, donna, moglie, vedova, e forse anche qualcos'altro, difende ed esalta il proprio ruolo di donna, e lo usa come arma di difesa e propaganda. Che forse è il modo più sincero per raccontare l'uguaglianza: le donne possono essere diaboliche quanto gli uomini.

Così finisce House of Cards. Una parabola in discesa, ma i segni lasciati da questa serie sono intorno a noi. Oggi è scontato che interpreti di primissimo livello possano essere protagonisti di una serie tv, nel 2013 non lo era. Oggi è consuetudine (positiva o negativa, secondo il gusto di ognuno) per vari distributori rilasciare intere stagioni in una soluzione unica, e House of Cards era lì quando tutto è iniziato.

Continua a leggere su BadTaste