House of Cards (quinta stagione): la recensione

House of Cards continua a raccontare la spietata ricerca del potere, nella quinta stagione della serie con Kevin Spacey e Robin Wright

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House of Cards nasce sotto Obama, muore sotto Trump, e nel mezzo vive un ventaglio di possibilità che sono sempre il riflesso di una politica in divenire. Più seriosa e meno seria del dovuto (il che è un bene), e soprattutto della concorrenza fantapolitica di Homeland, ma anche nei momenti più difficili vittima di un affanno, di una continua rincorsa a modelli che deve rispecchiare, superare, tenendosi sempre ancorato alla sua storia. Non è facile. La creatura di Beau Willimon – da quest'anno non più showrunner – è difficile da chiudere in schemi rigidi. Uno show indefinibile per tempi privi di punti di riferimento: parodia? Satira? Thriller? Fantapolitica? Questa quinta stagione della serie Netflix – in Italia su Sky Atlantic – è da promuovere, ma per la prima volta ci troviamo a questionare il senso profondo dello show.

La storia in realtà è più semplice e schematica degli anni passati. Mentre ci si avvicina al voto presidenziale che vede contrapposti Frank Underwood e William Conway, il primo si trova sotto scacco dopo le denunce di Hammerschmidt. Per dirottare l'attenzione pubblica ed evitare lo scandalo, Frank sfrutta la recente uccisione di James Miller sul suolo americano per chiamare a raccolta il Paese in una crociata contro l'ICO. Claire, candidata vicepresidente, continua ad essere la stampella morale di Frank, il primus inter pares tra i sottoposti del presidente. Oggi come in passato, la tendenza di Frank a dare per scontati i propri collaboratori, compresa la moglie, mentre è occupato a battere i nemici, può rivelarsi il suo punto debole.

La stagione è divisa nettamente in due segmenti, più netto e particolare il primo, più dispersivo e complesso il secondo. Tutto infine ritorna sotto quell'ombrello tematico che vede il potere per il potere come unico motore dell'azione. Un'idea che siamo stati abituati ad attribuire a Frank, ma che in realtà vale per tutti. Ad esempio è una bella idea quella di aggiungere complessità al personaggio di Conway, che non è più l'ennesimo nemico da sconfiggere, ma un uomo con le sue debolezze e le sue aspirazioni. La scrittura di House of Cards declina ogni personaggio in base al desiderio di potere e alla capacità di raggiungerlo: Frank, Claire, Tom, Will, Hannah, Petrov.

Ogni personaggio, ogni evento, ogni conflitto, ogni tematica che non si adegua a questo schema semplicemente ricade in una generica piattezza dalla quale emerge solo come strumento narrativo. Il conflitto siriano, il terrorismo, le elezioni, l'escalation con la Russia, gli omicidi e i tradimenti palesi, nulla sfugge a questa idea. Questo può essere un problema nel momento in cui ci confrontiamo con uno show che ha superato le sessanta puntate e deve continuare a tenere alta la soglia del conflitto, in continuo confronto con se stesso. La metafora del castello di carte a questo punto è più che abusata, ma rimane valida. Se nulla è importante per Frank, difficilmente lo sarà per noi.

Allora cos'è House of Cards? Forse, un gioco teatrale e metanarrativo. Kevin Spacey è il mattatore in scena che si rivolge alla platea degli spettatori, sapendo che questi godono del male narrato, perché non ha conseguenze, ma sapendo anche che lo temono, perché è lo specchio distorto di tempi bui. Qualcuno grida "Not my President", e i contorni si fanno sempre più sfumati. Se House of Cards non può più essere la distopia democratica contrapposta all'età obamiana, deve necessariamente ricadere in se stesso e offrire qualcosa di più sul piano dell'intrattenimento. Ed è qui che torna il problema nel dover raccontare qualcosa di nuovo in una serie che sembra aver già raggiunto il suo apice e che proprio per questo raramente potrà sorprendere.

La scrittura impone la vittoria, perché come abbiamo detto Frank Underwood semplicemente non esiste al di fuori di una situazione di conflitto perenne. Ma questa situazione di tensione costante obbliga la serie a bruciare più in fretta: costanti pressioni, costanti sfide, necessità di mettere in difficoltà i protagonisti. Tutto deve sempre essere vissuto al massimo, bisogna osare, alzare l'asticella, ma al tempo stesso mantenere punti fermi e una vaga (davvero vaga) idea di verosimiglianza. A quel punto tutto può essere prevedibile come andamento, e come al solito molto irreale, ma almeno nella gestione del voto presidenziale la scrittura è riuscita a venirne fuori bene.

Cardine di ogni cosa rimane Claire. La quarta stagione si chiudeva spalancando le porte della quarta parete anche al suo sguardo, ed è da quello che ripartiremo qui. La scrittura corteggia il personaggio per tutte le tredici puntate, preparando il terreno ad un cliffhanger non potente quanto quello dello scorso anno, ma interessante. Se Frank è il grado zero della malvagità, Claire in questa stagione fa un passo avanti. Guarda in camera, è più misurata in pubblico e più spietata nel privato. Non sappiamo quanto andrà ancora avanti la serie e quanto il gioco riuscirà a funzionare, ma questo è sicuramente un momento importante. Frank verrà sconfitto una volta sola, e quel momento segnerà la fine di House of Cards.

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