House of Cards 4x13 "Chapter 52" (season finale): la recensione
Lo sconvolgente season finale di House of Cards, coronamento di una stagione che ha riportato la serie alla qualità dei primi anni
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E quando le carte finiscono – esattamente 52, come gli episodi andati in onda finora – si può rimanere lì ad ammirarli, consapevoli che un basta un soffio di vento a buttarli giù. La quarta stagione di House of Cards termina alzando la posta come mai fino ad ora, chiudendo un percorso di sottomissione delle istituzioni, e di ciò che rappresentano, ai fini politici dei protagonisti. Gli Underwood come scommettitori consapevoli del benessere collettivo, che barattano l'integrità dell'ufficio per una possibilità in più nel momento in cui ogni altra alternativa viene preclusa loro. Un finale di grandissimo impatto, impalpabile e inverosimile (più per come viene narrato che per l'idea in sé), culmine di una stagione che ha riportato la serie ai fasti dei suoi primi anni.
È qui che Francis e Claire, nel frattempo messi alle strette dall'Herald, che inizia a martellare con la questione della corruzione del Presidente e il suo coinvolgimento nel tentato impeachment a Walker, mettono in pratica il loro piano. Prendono consapevolezza di essere opposti ai Conway. I loro avversari sono persone che possono piacere alla gente, loro no. Ma possono puntare sulla paura. Con toni enfatici Francis tiene sulle spine la nazione parlando di guerra totale all'ICO, senza tregua né dialoghi, e di costituire una coalizione per intervenire in Siria. In un momento finale da applausi, Francis e, per la prima volta, Claire guardano in camera, chiudendo con un'affermazione che si presta a più interpretazioni: "We don't submit to terror, we make the terror".
Eppure sono proprio queste esagerazioni che rischiano di affossare la credibilità della serie a riscattarla del tutto. House of Cards da sempre utilizza l'autoconsapevolezza, in primo luogo quella di Francis, i cui dialoghi in camera non servono solo a divertirci, ma anche a svelare la teatralità e l'implausibilità del tutto, per sostenere una storia impossibile. E in questo riesce molto meglio di un Homeland, che è comunque fantapolitica, ma molto più seriosa. Nella serie di Netflix è solo un gioco (del trono), nulla di più. Basti pensare a come fin da subito la serie abbia scelto di giocare con gli stereotipi dei partiti, per il puro gusto di ribaltarli e costruire una figura che deve prima di tutto essere un archetipo del male e della corruzione. Francis, democratico che non esita a intervenire sul welfare, che elogia Nixon, che è sopravvissuto a un attentato come Reagan, che – con una patriottica giacca blu e cravatta rossa – evoca una guerra al terrore e parla di formare una coalizione come all'indomani dell'11 settembre. Dall'altro lato Conway invece, più moderno, più familiare, più simpatico: sono stereotipi, certo, ma non sembra un caso che la serie li abbia voluti ribaltare.
Tornando alla stagione, questa si è chiusa su note decisamente più alte rispetto al deludente cliffhanger della scorsa stagione. Le ambigue macchinazioni del primo e secondo anno rimangono probabilmente irraggiungibili, ma House of Cards è tornato a crescere e a farci amare i suoi diabolici protagonisti, che lo scorso anno per vari motivi – forzature di sceneggiatura in primis – erano un po' regrediti. Il resto è la solita celebrazione di una serie visivamente impressionante, con due interpretazioni d'acciaio e la capacità di accostare il binomio cult-serie di qualità.