Hotspot - Amore senza rete, la recensione

Non è la serie di film Sul più bello ma Hotspot ne replica molte delle caratteristiche adattandole alla classica commedia italiana svogliata

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Hotspot - Amore senza rete, il film di Giulio Manfredonia in sala dal 6 giugno

Da Sul più bello nasce tutto. Quel film del 2020 che ha generato due sequel e una serie tv (che deve ancora uscire) ha determinato non solo il ritorno di un certo tipo di cinema di ragazzi, molto ispirato alle commedie teen americane, ma anche una maniera di farlo con espedienti, personaggi e dinamiche da queer cinema, poco importa che poi vengano trattate storie eterosessuali. Quella trilogia, di film in film, aggiungeva elementi queer (fino alla partecipazione di Drusilla Foer), su una mescolanza di generi americani: il film di malattia terminale unito alla commedia sentimentale, unito al diarismo della vita di una ragazza di vent’anni, unito al film generazionale.

Adesso, sempre Eagle Pictures con Hotspot - Amore senza rete fa una specie di sequel spirituale di Sul più bello, ma ambientato nel mondo delle commedie italiane. Non è legato in nessun modo a quella serie di lungometraggi (solo in un momento i personaggi di questo film guardano in tv il primo dell'altra saga) ma ne ha l’aria, i punti salienti e quel tipo di viraggio queer di una storia etero. Come nelle commedie italiane un dettaglio di moda tecnologica è lo spunto (lo faceva Salemme in SMS - Sotto mentite spoglie, lo faceva Moccia in Non c’è campo), e come nelle commedie italiane c’è una forte presenza del territorio (è tutto ambientato a Napoli con grande menzione di luoghi iconici e istituzioni locali, droni panoramici e luoghi cartolineschi). Invece come nelle commedie Eagle la protagonista con la sua fierezza conquisterà il cuore di un uomo che solitamente è spietato conquistatore di femmine, non ha una famiglia dietro di sé ma un gruppo di amici (coinquilini) che formano per lei una famiglia allargata e hanno una trama dedicata in cui a loro volta formano una famiglia tra di loro. Anche lì, di veri parenti non c’è traccia. Infine non manca la guest star: Peppe Servillo.

Stavolta dirige Giulio Manfredonia e la confezione ha molto meno un look internazionale, fatto di color correction e costumi o arredamenti dallo stile marcato (quasi cartoon), anzi ha quel tipo di luce naturalista delle commedie italiane, i costumi tradizionali e una ricerca di impressione di realismo da cinema dei Vanzina. Il film instant che fotografi un momento storico in cui due persone si incontrano la prima volta perché uno fa l’hotspot con il suo smartphone per aiutare l’altra, e da quel momento ogni volta che sono nei paraggi i loro telefoni si collegano (ma lui ha sempre l’hotspot attivo? La risposta è sì!). Lei aspirante ballerina, lui ben più adulti rampante uomo della finanza napoletana.

E dei film italiani Hotspot ha tutte le caratteristiche di messa in scena più degradanti, senza saltarne nemmeno una: ha le musiche assassine che entrano continuamente insieme a una battuta sentimentale, pronte a sottolineare tutto, anche nei piani di ascolto come nelle soap; ha il montaggio musicale alla fine in cui uno dei personaggi ricorda i momenti felici con gli altri attraverso scene che abbiamo visto letteralmente 20 minuti prima; ha un finale positivo con risoluzione di tutte le trame attraverso l’accoppiamento (quella dinamica per la quale nessun personaggio deve rimanere solo); ha la venerazione generica per il mondo dell’arte, senza un approccio complesso ma con una sbrigativa ammirazione dei luoghi iconici; soprattutto ha quel modo svogliato di dare un blando ritmo a un intreccio eterno senza tagliarselo su misura, nonché di (non) curare la recitazione e (non) caratterizzare i personaggi.

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