Hotel Transylvania: Uno scambio mostruoso, la recensione
La saga di Hotel Transylvania continua a fingere di parlare ai bambini per proporsi come cronaca del passaggio del tempo per i genitori
I franchise moderni, quando procedono avanti nel tempo (cioè quando non sono prequel) funzionano per accumulo di gruppi che somigliano a famiglie. Un accumulo che prevede che i villain, finito il film, siano fatti entrare nella famiglia per arricchirla. Il modello aureo (per quanto non il primo a farlo) è Fast & Furious e Hotel Transylvania non funziona troppo diversamente: ogni capitolo introduce nuovi personaggi siano o no villain, così che quello successivo tenga conto della famiglia allargata. Tutta l’introduzione di questo quarto film della serie serve a ri-presentare i personaggi, introdurne la presenza o anche solo confermarne l’esistenza (alcuni non avranno nessuna economia nel film). La creazione di una mitologia ampia passa anche da qui, volontariamente o meno, da una squadra di personaggi.
In un senso più profondo però tutta la serie ha come tema il tempo che passa. Ogni capitolo è ambientato al momento in cui il Conte si trova di fronte all’inevitabile segno del passaggio del tempo e all’accettazione che tutto debba evolversi. La prima volta era il primo fidanzato della figlia, la seconda sono i figli della figlia (e la possibilità che lei se ne vada e lasci il nido paterno), la terza volta è in crociera, di fronte all’idea di stare invecchiando ma poter ancora avere qualcuno accanto e adesso addirittura è la pensione. A scatenare l’intreccio è infatti il fatto che il Conte sia reticente a lasciare il suo hotel alla figlia e al genero umano.
Che è interessante visto come il Conte Dracula sia in realtà una figura a cui è abbinato l’opposto di tutto ciò: l’eternità. Soprattutto è interessante perché diversi franchise seguono la crescita del loro pubblico, questo sembra seguire l’invecchiamento dei genitori del proprio pubblico.
Il problema vero però è che non c’è più Genndy Tartakovsky al timone, vero genio capace di rendere un cartone nato con premesse non proprio eccezionali un delirio appassionato di forme, movimenti rapidi e linee sinuose che si scontrano con quelle spigolose (il terzo in questo era pazzesco anche per i nuovi personaggi che introduceva). Certo rimane l’umorismo quasi solo slapstick, che è il vero marchio della serie di film Hotel Transylvania, unici nel panorama dell’animazione per il cinema a rincorrervi, e che lo lega tantissimo all’animazione televisiva. Rimane insomma la passione per i movimenti che danno personalità ai personaggi e alle scene ma manca il salto di qualità e di follia in un cartone che proprio su quello punta tutto.