Hostel

Tre ragazzi in viaggio ad Amsterdam vengono a conoscenza di un ostello nei pressi di Bratislava, pieno di magnifiche ragazze. Incuriositi, si recano sul posto, ma, oltre al sesso, troveranno qualcosa di meno piacevole. Un film che dimostra la grave crisi del genere horror…

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Dovevo capirlo fin dai titoli di testa. Quel “Quentin Tarantino presenta” (ma che si presenta? Ma chi è, Alfred Hitchcock? Non ha qualche film da realizzare piuttosto che fare il presentatore strapagato?) è ormai segnale inequivocabile di bufala spaziale. Ma non ero pronto a questo scempio. Hostel viene spacciato da qualcuno come un film innovativo e ha fatto un sacco di soldi (considerando il misero budget), ma è l’ennesima dimostrazione che il genere è agonizzante e con la gola squarciata.

La prima mezz’ora è una sorta di Porky’s - American Pie, senza risate ma con molte più tette. Lo scambio potrebbe essere anche accettabile, se non fosse che le scene di sesso sono assolutamente gratuite, decisamente non eccitanti e, ad un certo punto, anche insensate (e allora, tanto varrebbe affittare un film porno fatto decentemente). Poi, invece, si passa alle leggende metropolitane, ma soprattutto allo scopiazzamento di altri celebri horror. L'idea è ovviamente ripresa da La pericolosa partita, che è poi stato rifatto spesso, anche da John Woo. Penso al clima di oppressione nel paesino slovacco per i ragazzi stranieri, che è decisamente debitore di pellicole come Wicker Man. O al viaggio di un paio di amici americani in Europa (Un lupo mannaro americano a Londra, ovvio). Impossibile poi non pensare, vedendo un paio di scene, a Non aprite quella porta e a Simpathy for Mr. Vengeance, senza trascurare una spruzzatina di Tsukamoto. Tralasciamo poi le strizzatine d’occhio al produttore (una televisione che trasmette Pulp Fiction, con Samuel L. Jackson doppiato in slovacco) e il cammeo di Takashi Miike (carino, ma ci ricorda che qualsiasi suo film realizzato in due minuti ha più idee di questo).

Ma il fatto è che la regia di Eli Roth è troppo banale per tirar fuori, da tutte queste citazioni, qualcosa di nuovo. D’altronde, le scene di mutilazione/decapitazione/tortura sono talmente prolungate e compiaciute da risultare soltanto noiose. Con grande coerenza, Roth si occupa della sceneggiatura mettendo in mostra “doti” analoghe. I ragazzi presentati sono fin troppo imbecilli per potersi minimamente identificare con loro (anche se, visto il successo del film, c’è da preoccuparsi per la salute mentale dei ventenni di oggi). E non si capisce perché non vengono catturati subito (forse per allungare il brodo e mostrare un po’ di sesso?). O perché, nonostante si abbia l’impressione che ci siano decine di ragazzi scomparsi in quel paesino, nessuno sembra cercarli (e, contemporaneamente, perché nessuno degli aguzzini si preoccupi di essere scoperto). Non parliamo poi del “realismo” della banda di ragazzini o del fatto che una ragazza orribilmente sfigurata passi inosservata in una stazione affollata.

Qualcuno, di fronte a questa storia, potrebbe vederci una metafora politica sull’attualità e sui rapporti tra occidente ricco e paesi in via di sviluppo. O, in una scena, trovare un riferimento ai campi di concentramento e ai forni crematori. Si tratta di argomenti decisamente importanti e da citare riferendosi a film validi, non certo a proposito di questa spazzatura…

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