Horizon: An American Saga - Capitolo 2, la recensione: Kevin Costner vive nel passato

Stavolta il punto sono le comunità e come in singoli vivano e trovino un senso (o no) al loro interno, ma Horizon rimane un retrowestern

Critico e giornalista cinematografico


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Il western è un genere che parla sempre del medesimo periodo storico, ma con il passare degli anni si evolve per tenere conto dei cambiamenti del suo tempo. Per questo Horizon: An American Saga (proprio tutto il progetto) è un retrowestern, un film moderno che si maschera da film vecchio, di un’altra era dell’evoluzione del western, una più ottimista, classica e innamorata del proprio paese. Non lo dimostra solo l’impostazione, ma anche il ruolo di buoni e cattivi, che nel western è sempre un indicatore (è proprio quando i cattivi hanno smesso di essere “i cattivi” che il genere ha iniziato a cambiare). Costner vuole un racconto confortante e tranquillizzante, in cui i cattivi sono chiaramente riconoscibili, maligni dentro e separati anche visivamente dai buoni (vestiti di nero, brutti in volto, arcigni nelle espressioni). Il male, nel mito fondativo degli Stati Uniti, è una cosa altra rispetto al bene (anch'esso evidente: puro, pulito e limpido); non bisogna temere il fatto che sia dentro ognuno di noi, perché in realtà lo possiamo vedere tutti: è chiaramente distinguibile e quindi isolabile e soffocabile.

È l’esatto opposto del cinema (western e non) moderno, che invece elegge i cattivi a protagonisti, che mostra l’ambiguità dei cosiddetti buoni e afferma che le cose peggiori possono venire dagli uomini che sembrano migliori (addirittura la Disney ci è arrivata con Frozen!). Non che Costner non lo sappia: semplicemente non gli interessa. Così fa questa operazione di retrocinema e ora, nel secondo capitolo, si concentra sulla comunità e sul rapporto del singolo con il gruppo o all’interno del gruppo, e su quale ruolo ognuno debba assumere per contribuire al bene di tutti. Del resto, Horizon è una grande storia epica che usa la fondazione di una città per raccontare la fondazione di un paese e l’anima che l’ha creato.

Lo fa con un impianto narrativo da anni ’80, con i cinesi che entrano in scena accompagnati da una musichetta stereotipata e che si devono integrare attraverso la lingua comune del capitalismo (l'unica che conti). Lo fa raccontando la disavventura di una donna rimasta sola, violentata e maltrattata dai “cattivi”, e salvata dalla comunità solo nel momento in cui sceglie un altro uomo da conquistare perché la protegga. Insomma, è quella visione del mondo e quell’ottimismo riguardo alla capacità dell’America di superare le difficoltà e alla fine fare giustizia delle ingiustizie. Sempre.

Certo, se il racconto, invece di essere multistrand (più storie con personaggi diversi che seguiamo saltando dall’una all’altra), fosse lineare, cioè se affrontasse una storia alla volta, forse ne beneficerebbe e sembrerebbe meno una serie televisiva. Tuttavia se si guarda Horizon per quello che è, invece che per quello che forse dovrebbe essere, non si può negare che sia un’operazione di western spettacolare, ben portata a termine. In questo secondo capitolo, è anche più appassionante e ritmata, con interpretazioni molto in linea con il resto della messa in scena (a Costner non si può dire che non sappia tenere in riga tutti i comparti dei film che dirige) e un certo senso di epica che rimane un bel vedere.

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