Horizon: An American Saga - Capitolo 2, la recensione: Kevin Costner vive nel passato
Stavolta il punto sono le comunità e come in singoli vivano e trovino un senso (o no) al loro interno, ma Horizon rimane un retrowestern
Il western è un genere che parla sempre del medesimo periodo storico, ma con il passare degli anni si evolve per tenere conto dei cambiamenti del suo tempo. Per questo Horizon: An American Saga (proprio tutto il progetto) è un retrowestern, un film moderno che si maschera da film vecchio, di un’altra era dell’evoluzione del western, una più ottimista, classica e innamorata del proprio paese. Non lo dimostra solo l’impostazione, ma anche il ruolo di buoni e cattivi, che nel western è sempre un indicatore (è proprio quando i cattivi hanno smesso di essere “i cattivi” che il genere ha iniziato a cambiare). Costner vuole un racconto confortante e tranquillizzante, in cui i cattivi sono chiaramente riconoscibili, maligni dentro e separati anche visivamente dai buoni (vestiti di nero, brutti in volto, arcigni nelle espressioni). Il male, nel mito fondativo degli Stati Uniti, è una cosa altra rispetto al bene (anch'esso evidente: puro, pulito e limpido); non bisogna temere il fatto che sia dentro ognuno di noi, perché in realtà lo possiamo vedere tutti: è chiaramente distinguibile e quindi isolabile e soffocabile.
Lo fa con un impianto narrativo da anni ’80, con i cinesi che entrano in scena accompagnati da una musichetta stereotipata e che si devono integrare attraverso la lingua comune del capitalismo (l'unica che conti). Lo fa raccontando la disavventura di una donna rimasta sola, violentata e maltrattata dai “cattivi”, e salvata dalla comunità solo nel momento in cui sceglie un altro uomo da conquistare perché la protegga. Insomma, è quella visione del mondo e quell’ottimismo riguardo alla capacità dell’America di superare le difficoltà e alla fine fare giustizia delle ingiustizie. Sempre.