Hopper e il tempio perduto, la recensione
Modellato su Zootropolis e Indiana Jones e incapace di avere idee proprie Hopper e il tempio perduto conferma tutto quel che sappiamo di Ben Stassen
Ben Stassen è l’Ed Wood dell’animazione europea. Sono decenni che produce lungometraggi d’animazione in computer grafica a livelli mai superiori a mediocre, lo fa con fondi tra il suo Belgio e la sempre munifica Francia, alle volte coinvolgendo anche Regno Unito e altri paesi fecondi. Sono storie le sue che si muovono nell’area Asylum, cioè spesso simili ai film Pixar, Disney o Dreamworks ma non esattamente uguali, come Le avventure di Sammy, la cui protagonista è una tartaruga di mare dal design non diversa da quella di Alla ricerca di Nemo (e c’è anche un Sammy 2!). Adesso ha agganciato una distribuzione Sony o Warner in diversi paesi quindi delle major, e sembra aver fatto quasi un salto di qualità. Certo il film rimane più o meno quel che è.
Hopper e il tempio perduto, nonostante la distribuzione più blasonata, rimane un sottoprodotto animato europeo. Guarda ai modelli americani ma fa una grandissima confusione e soprattutto si macchia dell’imperdonabile peccato di non avere una propria personalità. Stassen continua a produrre a rotta di collo eppure nonostante una carriera di ormai 15 anni non ci sono tratti che distinguono le sue opere se non il loro essere imitazioni a basso costo dei cartoni maggiori. E se questo è comprensibile a livello tecnico (i più grandi sviluppano internamente i software e quando c’è una nuova versione vendono le vecchie agli altri), è impensabile a livello narrativo. Di Hopper e il tempio perduto si potrebbe tollerare l’essere antiquato nella realizzazione e derivativo nel design ma come sempre non si può passare sopra la noia e il riciclo continuo di situazioni e idee già note senza nessuna urgenza di raccontare qualcosa di interessante.