Homemade, la recensione della raccolta di corti su Netflix

17 registi filmano il proprio lockdown ma Homemade è più che altro il risultato della loro vanità e pigrizia

Critico e giornalista cinematografico


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Non può esistere un giudizio unico su un insieme di cortometraggi, si può al massimo dire (a posteriori) se valesse la pena o no mettere insieme un’operazione simile, poi ogni altra considerazione necessariamente varia da corto a corto. Ecco Homemade, una volta finito, sembra subito un’operazione persa in partenza. Andare a chiedere a personalità importanti del mondo del cinema, in certi casi potenti, di realizzare un cortometraggio sul proprio lockdown vuol dire non avere controllo produttivo, e sottomettersi a quel che loro vorranno fare e produrre, riceverlo e accettarlo a prescindere. Il risultato è che su 17 cortometraggi almeno 13 raccontano la stessa identica (e non interessante) cosa: la quotidianità della loro famiglia.

Homemade è una spremuta di idee che non sono tali e storie per nulla interessanti, in cui nomi altisonanti o provano ad alzare l’asticella con risultati di una noia che impressiona per lo scarso minutaggio (tra i 7 e i 10 minuti a testa) come per esempio avviene nei corti di Maggie Gyllenhaal, Kristen Stewart o Naomi Kawase, oppure sì limitano a riprendere mogli, mariti, gatti, figli e anche solo i loro salotti con voci fuori campo che raccontano delle terribili tensioni e del loro stress, come fanno Nadine Labaki, Natalia Beristain, Antonio Campos, David Mackenzie, Gurinder Chadha (che almeno sa narrare) e Rachel Morrison.

I rimanenti che hanno avuto uno straccio di idea o almeno vivevano in un contesto vagamente interessante, hanno confezionato qualcosa di se non altro vedibile (Johnny Ma, Rungano Nyoni, Sebastian Schipper, Sebastian Lelio).

In nessuno di questi casi Homemade mostra del cinema nel senso stretto. L’operazione partiva dal presupposto di riflettere sul lockdown ma finisce a fare video amatoriali o corti vanesi e narcisi sul proprio ombelico, senza avere la forza che i registi dovrebbero avere di creare delle immagini che ce lo raccontino davvero (il lockdown o se non altro il loro ombelico).

Gli unici a farsi venire delle idee e di cui valga la pena parlare sono Sorrentino, Larrain, Lady Lj e Ana Lily Amirpour.
Paolo Sorrentino gira uno dei corti se non altro più goduriosi, mette a frutto la pigrizia e crea, a partire da un’idea semplice e dalle sue ossessioni. Inventa personaggi reali di fantasia come è solito fare, racconta l’isolamento di figure potenti dentro l’abitazione (la sua) in cui è isolato, fa tantissima ironia, cerca di divertirsi e trova inquadrature divertenti (alcune fatte con il cellulare da sé ricordano quelle che spesso Luca Bigazzi compie nei suoi film) e momenti a suo modo unici o meglio che avremmo potuto vedere giusto in un film di Michel Gondry (quello in cui il Papa balla con la regina poi è bellissimo).


Pablo Larrain gira qualcosa che ha poco a che vedere con il lockdown ma almeno è scritto e recitato benissimo, è un corto che fosse fatto da un esordiente segnalerebbe una capacità non comune di scrivere personaggi e dirigere attori.

Lady Lj ripete l’idea cruciale di I Miserabili, peggiorandola, ma almeno è qualcosa, racconta uno spicchio di lockdown, mostra un mondo.

Infine Ana Lily Amirpour, ultimo dei corti, pur aderendo al club della voce fuoricampo che pontifica con pesantezza regala vere immagini potenti: Hollywood deserta, le strade, i cinema, le palme e lei (un’iraniana che lì è una delle molte forze straniere) che la attraversa in bici con mascherina. Qualcosa di finalmente potente, il luogo del postapocalittico ripreso in un momento in cui davvero pare postapocalittico e sembra sforzarsi esso stesso (con le scritte nei cinema) di aderire alla mitologia postapocalittica.

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