Homemade, la recensione della raccolta di corti su Netflix
17 registi filmano il proprio lockdown ma Homemade è più che altro il risultato della loro vanità e pigrizia
Homemade è una spremuta di idee che non sono tali e storie per nulla interessanti, in cui nomi altisonanti o provano ad alzare l’asticella con risultati di una noia che impressiona per lo scarso minutaggio (tra i 7 e i 10 minuti a testa) come per esempio avviene nei corti di Maggie Gyllenhaal, Kristen Stewart o Naomi Kawase, oppure sì limitano a riprendere mogli, mariti, gatti, figli e anche solo i loro salotti con voci fuori campo che raccontano delle terribili tensioni e del loro stress, come fanno Nadine Labaki, Natalia Beristain, Antonio Campos, David Mackenzie, Gurinder Chadha (che almeno sa narrare) e Rachel Morrison.
I rimanenti che hanno avuto uno straccio di idea o almeno vivevano in un contesto vagamente interessante, hanno confezionato qualcosa di se non altro vedibile (Johnny Ma, Rungano Nyoni, Sebastian Schipper, Sebastian Lelio).
Gli unici a farsi venire delle idee e di cui valga la pena parlare sono Sorrentino, Larrain, Lady Lj e Ana Lily Amirpour.
Paolo Sorrentino gira uno dei corti se non altro più goduriosi, mette a frutto la pigrizia e crea, a partire da un’idea semplice e dalle sue ossessioni. Inventa personaggi reali di fantasia come è solito fare, racconta l’isolamento di figure potenti dentro l’abitazione (la sua) in cui è isolato, fa tantissima ironia, cerca di divertirsi e trova inquadrature divertenti (alcune fatte con il cellulare da sé ricordano quelle che spesso Luca Bigazzi compie nei suoi film) e momenti a suo modo unici o meglio che avremmo potuto vedere giusto in un film di Michel Gondry (quello in cui il Papa balla con la regina poi è bellissimo).
Pablo Larrain gira qualcosa che ha poco a che vedere con il lockdown ma almeno è scritto e recitato benissimo, è un corto che fosse fatto da un esordiente segnalerebbe una capacità non comune di scrivere personaggi e dirigere attori.
Lady Lj ripete l’idea cruciale di I Miserabili, peggiorandola, ma almeno è qualcosa, racconta uno spicchio di lockdown, mostra un mondo.
Infine Ana Lily Amirpour, ultimo dei corti, pur aderendo al club della voce fuoricampo che pontifica con pesantezza regala vere immagini potenti: Hollywood deserta, le strade, i cinema, le palme e lei (un’iraniana che lì è una delle molte forze straniere) che la attraversa in bici con mascherina. Qualcosa di finalmente potente, il luogo del postapocalittico ripreso in un momento in cui davvero pare postapocalittico e sembra sforzarsi esso stesso (con le scritte nei cinema) di aderire alla mitologia postapocalittica.