Homeland: la recensione della prima parte della seconda stagione

Il commento alla seconda stagione della serie rivelazione di Showtime...

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Quanto è difficile essere Homeland? Quanto è difficile essere una serie che, partita come semplice remake di uno show israeliano, è riuscita ad imporsi come la rivelazione dello scorso anno, tanto da giungere al completo trionfo all'ultima edizione degli Emmy Awards? E, soprattutto, quanto è difficile con un'eredità di questo tipo riuscire a superarsi nella seconda stagione? Ebbene, Homeland ce l'ha fatta.

Coraggio, intelligenza è un po' di follia: sono queste le caratteristiche che accomunano Carrie Mathison (Claire Danes) e gli autori dello show, questi ultimi in grado di ribaltare efficacemente in poche puntate, e per più di una volta, lo schema stesso alla base della serie. Sarebbe stato facile, dopo il successo dello scorso anno, proseguire anche in questa stagione nella scia del gioco delle parti tra Nicholas Brody (Damian Lewis), il marine ritrovato dopo otto anni di prigionia in Iraq, in realtà ormai votato alla causa terroristica, e Carrie Mathison, agente della CIA affetta da un disturbo bipolare, unica persona a non credere alla versione fornita dall'uomo.

E invece no. Con un colpo di mano talmente coraggioso e incurante del normale linguaggio televisivo da ricordare le migliori intuizioni di Breaking Bad, gli autori ci hanno tramortito piazzando dal primo al quinto episodio una serie di finali uno più spiazzante dell'altro. Quando sembrava che la serie avesse trovato il suo nuovo, inevitabile equilibrio sul quale basare tutta la nuova stagione, ecco che questa stessa situazione di "quiete" non poteva durare e subentrava un nuovo rimescolamento delle carte. Intanto le puntate passavano, ed ecco che, dalla scoperta di Saul del nastro che incriminava Brody, alla condivisione di questo con Claire (che quasi scoppia in lacrime quando scopre che l'intuizione che quasi l'aveva fatta impazzire era corretta) all'incredibile smascheramento palese di Brody fino alla decisione di questo di collaborare, abbiamo scoperto come la natura "in divenire" di questa stagione fosse ormai una costante.

I ritmi si sono notevolmente alzati rispetto alla prima stagione, che al contrario presentava un momento di "stallo" nella parte centrale per poi riprendersi nel finale. Il fatto che ormai tra i protagonisti si giochi "a carte scoperte" non ha scalfito la tensione che da sempre si respira nella serie: semplicemente questa si è spostata su un piano diverso. Il tormento interiore dei due protagonisti, rimasto quasi sommerso per tutta la precendente stagione, esplodeva, secondo modalità diverse, nel lungo season finale. Da questo individualismo sofferto, malato, ecco nascere in questa seconda stagione una possibile sincera dialettica tra Carrie e Nicholas, una dialettica dura, crudele, serrata, fatta di sentimenti contrastanti vissuti sempre al limite (la scena di sesso di I'll fly away è talmente sopra le righe da risultare quasi fastidiosa). In questo gioco malato, in cui gli opposti non possono fare altro che attrarsi irresistibilmente, il culmine viene raggiunto nell'eccezionale Q&A: un tavolo, due sedie, quasi quaranta minuti di dialogo e due interpreti perfetti, nient'altro da aggiungere.

La stagione però non è perfetta: se tutti i comprimari – da Morena Baccarin a Morgan Saylor a Mandy Patinkin – riescono a fare un ottimo lavoro, pur se distaccati dalla coppia lì davanti, altrettanto non si può dire per le storyline secondarie. Alla vicenda di Dana e del figlio del vice presidente è stato forse dedicato un eccessivo minutaggio, a fronte di una scarsa importanza, almeno per ora, nella vicenda principale, idem per l'indagine personale di Mike, probabilmente il personaggio più debole del lotto e per alcune soluzioni narrative un po' troppo forzate e inverosimili (su tutte il finale di A Gettysburg Address).

Ma si tratta solo di piccoli difetti in un'ottima serie che puntata dopo puntata sta costruendo qualcosa di grandioso...

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