Homeland 7x03 "Standoff": la recensione
La recensione del terzo episodio della stagione di Homeland, intitolato Standoff
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Dunque Carrie che vive ancora una volta con difficoltà il proprio bipolarismo. Dopo il grande blocco centrale di stagioni in cui il problema era tenuto a freno grazie al litio, avvicinandosi lentamente alla chiusura, la serie di Showtime sente quasi il bisogno ideale di fare ancora una volta i conti con quel problema. Prova ne è il fatto che questo viene anche evocato nelle frasi della sigla stagionale. Quindi il litio che ha perso nel tempo il proprio effetto sulla protagonista, e che la lascia scoperta di fronte ai problemi della vita privata e professionale. Il primo pensiero di Carrie, va riconosciuto, va alla figlia Franny. Carrie affronta il problema da un punto di vista non egoista, come poteva essere in passato, e si preoccupa della prospettiva di dover far subire alla figlia gli effetti passivi della malattia.
Saul intanto è diventato letteralmente l'uomo sul campo della Keane, chiamato a far ragionare O'Keefe, o almeno a provarci. Ci sono spiragli di una soluzione diplomatica che svaniscono sotto una nuova ondata di violenza, e c'è una dura presa di posizione di Saul. E con lui anche della scrittura che, dopo due episodi in bilico, si schiera apertamente contro O'Keefe, personaggio pericoloso e che, ricordiamolo, “sta avvelenando la conversazione” tramite slogan di dubbio valore, puntando sull'esasperazione dei toni per far leva sugli istinti più bassi di certe fasce della popolazione.
Passo indietro anche sulla Keane, che in effetti non ha cambiato idea circa la politica orientativamente isolazionista degli Stati Uniti. Lo stesso Wellington infine fa un passo in avanti scavalcando la Madame President e autorizzando un attacco contro cui questa si era opposta. Con l'autorizzazione dell'attacco in Siria gli orizzonti narrativi della stagione si fanno più ampi, e tutto diventa più interessante perché più globale.