Homeland 7x03 "Standoff": la recensione

La recensione del terzo episodio della stagione di Homeland, intitolato Standoff

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Spoiler Alert
Nei suoi momenti peggiori, Homeland sembra cadere nello stesso tranello che ha attanagliato alcuni dei personaggi passati della serie: innamorarsi troppo di Carrie. Che certamente è la protagonista incontrastata dello show, e che eppure in certi frangenti sembra elevarsi al di sopra di quel grande e pericoloso parco giochi che è la politica internazionale ritratta dalla serie, per prendersi tutta la luce sotto i riflettori. Era capitato già la settimana scorsa, con una parentesi tutto sommato inutile e riempitiva, destinata solo a ricordarci una determinata caratterizzazione del personaggio che certo alla settima stagione non ci giunge nuova. Capita ancora, in minor misura, stavolta, con Carrie che si ritrova ad affrontare vecchi problemi e crisi personali. A quel punto lo Standoff, ossia il “punto morto”, evocato dal titolo dell'episodio sembra calzare bene alla puntata, che per il resto si limita a consolidare gli altri personaggi.

Dunque Carrie che vive ancora una volta con difficoltà il proprio bipolarismo. Dopo il grande blocco centrale di stagioni in cui il problema era tenuto a freno grazie al litio, avvicinandosi lentamente alla chiusura, la serie di Showtime sente quasi il bisogno ideale di fare ancora una volta i conti con quel problema. Prova ne è il fatto che questo viene anche evocato nelle frasi della sigla stagionale. Quindi il litio che ha perso nel tempo il proprio effetto sulla protagonista, e che la lascia scoperta di fronte ai problemi della vita privata e professionale. Il primo pensiero di Carrie, va riconosciuto, va alla figlia Franny. Carrie affronta il problema da un punto di vista non egoista, come poteva essere in passato, e si preoccupa della prospettiva di dover far subire alla figlia gli effetti passivi della malattia.

Ma le vicende stagionali incombono, e per una volta che Carrie non va in cerca di guai, sono questi a trovare lei. Lo fanno nelle fattezze di Dante, che ha delle informazioni su Simone Martin, legata a David Wellington e coinvolta nella morte di McClendon. Tanto basta per vincere le resistenze di Carrie. C'è un'effrazione e qualche prova viene raccolta, ma la storia si concentra non tanto sull'indagine in sé quanto sul modo in cui Carrie si rapporta agli eventi, improvvisando una storia da vendere a due agenti di polizia, e poi disperandosi nel momento in cui viene schedata per effrazione. In qualche modo ne esce, ancora una volta, ma a quel punto il cuore della storia, almeno di quella che ci è stata raccontata in questo episodio, è legato più al modo in cui viene vissuta dalla protagonista che rispetto a quel che accade in concreto.

Saul intanto è diventato letteralmente l'uomo sul campo della Keane, chiamato a far ragionare O'Keefe, o almeno a provarci. Ci sono spiragli di una soluzione diplomatica che svaniscono sotto una nuova ondata di violenza, e c'è una dura presa di posizione di Saul. E con lui anche della scrittura che, dopo due episodi in bilico, si schiera apertamente contro O'Keefe, personaggio pericoloso e che, ricordiamolo, “sta avvelenando la conversazione” tramite slogan di dubbio valore, puntando sull'esasperazione dei toni per far leva sugli istinti più bassi di certe fasce della popolazione.
Passo indietro anche sulla Keane, che in effetti non ha cambiato idea circa la politica orientativamente isolazionista degli Stati Uniti. Lo stesso Wellington infine fa un passo in avanti scavalcando la Madame President e autorizzando un attacco contro cui questa si era opposta. Con l'autorizzazione dell'attacco in Siria gli orizzonti narrativi della stagione si fanno più ampi, e tutto diventa più interessante perché più globale.

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