Dopo la prima, quasi storica ormai, trilogia di stagioni di
Homeland, lo show ha cambiato rotta. In un certo senso l'idea di diventare una serie praticamente, se non formalmente, antologica, ha permesso anno dopo anno agli autori di rinnovare storyline e personaggi. Soprattutto ambientazioni, così cangianti, e così adattabili alla frenetica geopolitica mondiale, che rimane sempre il riferimento principale della fantapolitica di Homeland. Ma tutto deve avere una conclusione, e Homeland d'altra parte ha sbagliato talvolta nella gestione di alcuni personaggi fondamentali.
Brody è stato di tutto e di più, prima del necessario addio, e simile giudizio si potrebbe dare su
Quinn, personaggio amabile, personaggio simbolo della serie per certi versi, ma anche troppo sacrificato e mortificato nella scorsa stagione.
Homeland quindi riparte. Lo fa, per la prima volta da tantissimo tempo, da una situazione nota e precostituita. Questa settima stagione, e probabilmente anche la prossima, che dovrebbe essere l'ultima della serie, si aggancia nettamente alla sesta, riparte poco dopo gli eventi del season finale, e più che gestire l'ennesimo reset di ambientazione e storyline cavalca la tensione che si era generata da una conclusione che sapeva molto di cliffhanger. Era ciò di cui la serie di Showtime aveva bisogno, arrivata a questo punto. Facciamo meno fatica a rientrare nei panni di Carrie Mathison e degli altri, e il ritmo si fa subito alto. Le fazioni in gioco sono ben delineate, gli obiettivi e i conflitti, se non palesi, sono comunque molto intuibili.
Dopo gli scontri del season finale e il fallito attacco alla politica, e alla persona, della presidente
Keane, la politica americana – la società rimane ai margini almeno per ora – è chiaramente investita dalle conseguenze di quei gravi atti. Approfittando del clima di minaccia, il governo avrebbe messo in moto una politica di epurazione e arresti indiscriminati. C'è evidentemente indignazione o approvazione nella società che ascolta tutto questo, ma come detto per adesso Homeland si concentra sulla prospettiva dei protagonisti. Che partecipano attivamente per condurre gli eventi. Ritroviamo Carrie e figlia a casa della sorella. Fin da subito è una situazione che si presenta come critica, anche perché va ad inserirsi nel microconflitto tra il marito della sorella, che ha un impiego governativo, e la figlia di questo, dalla parte degli attivisti antigovernativi.
È la solita Carrie, che sia sul campo, o in incognito, o contro i suoi superiori, poco importa. C'è un riferimento ideale ad una delle caratteristiche principali del personaggio, quella di essere la voce contro, da sola, convinta delle proprie ragioni anche contro l'evidenza. Qui la differenza sostanziale, proprio grazie al fatto che la stagione è molto legata alla precedente, è che noi abbiamo già un quadro predefinito di rapporti e obiettivi, e la Keane è tutt'altro che un personaggio col quale si può empatizzare. Molto tempo sembra essere trascorso da quando il presidente prometteva una politica meno interventista sul piano estero, personaggio scomodo per qualcuno. Addirittura l'odioso O'Keefe è un personaggio in fuga, una specie di “perseguitato politico”. Ma anche empatizzare con lui è impossibile.
Il momento di violenza finale, in cui il generale McClendon viene ucciso nell'impossibilità di ottenere una condanna a morte formale, è atteso, ma è anche un momento che definisce strettamente gli eventi a venire. Se il cuore della geopolitica è fatto di conflitti astratti, di bene e male che si mischiano e non sono mai così netti, e spesso Homeland ce lo ha raccontato, avvicinandosi – più o meno – alla sua conclusione, la serie ragiona sempre più in termini fantapolitici, e per questo più netti. Certo, c'è il binomio sicurezza-libertà, ma sinceramente è un elemento così abusato che aggiunge ben poco a livello tematico. Idem per i riferimenti, che saranno semplici da trovare, alla presidenza Trump.
Quindi Homeland riparte con il piede giusto, intenso fin da subito, abbastanza definito negli obiettivi e nell'ambientazione.