Homeland meriterebbe migliori parole di congedo di quelle che si dovrebbero scrivere dopo questo season finale e in generale dopo la seconda parte della quinta stagione. Le meriterebbe perché, nonostante tutto, è una serie che ha una dignità costruita nel corso di anni che molte altre si sognano, perché ha la sfrontatezza, quando non la capacità, di buttarsi in scenari fantapolitici che altrove sarebbero giudicati intoccabili, perché ha il coraggio di andare oltre l'indulgenza verso i suoi protagonisti, di buttarlì giù, farli soffrire, addirittura ucciderli per il bene superiore della serie. D'altra parte quest'anno qualcosa si è inceppato nel meccanismo imperfetto ma ben rodato dello show, e ci siamo trovati a dover sospendere la nostra incredulità più volte di quante si dovrebbe chiedere a uno spettatore.
A Flase Glimmer è un finale che si pone nella scia di quelli delle precedenti due stagioni, con un climax iniziale che si ricollega fortemente al cliffhanger della scorsa settimana, e una lunghissima parentesi rimanente che serve da restart o ripristino dell'equilibrio iniziale. Perché questa è una serie incentrata sui personaggi, si dirà, e ciò che provano e che accade loro è più importante della tensione del racconto. Può darsi, ma quando ci sono in gioco Stato Islamico, CIA, Europa, Russia, Stati Uniti, documenti compromettenti e attentati, forse è lecito attendersi qualcosa di più elaborato, invece di un lento epilogo che si scioglie con naturalezza e linearità.
L'attentato fallisce, non grazie a
Carrie, come lei vorrà puntualizzare, ma ovviamente il suo intervento è stato decisivo. E scatta un mezzo brivido nello
scambio chiave dell'episodio, quello necessario e troppo a lungo rimandato tra lei e Saul:
"If that weapon had gone off we’d be living in a different world today"/"We’re already living in a different world. The attack wasn’t the first and it certainly won’t be the last". È in questi momenti tra previsione, consapevolezza, quasi metanarrazione, che Homeland esce dalla scia di quel mondo fantapolitico – in cui possiamo permetterci di tirare in gioco Assad e Isis con relativa leggerezza – e guarda a se stesso dal di fuori, insieme a noi, consapevole di raccontare anche se con il linguaggio della finzione una parentesi necessaria.
E di farlo avendo il coraggio delle proprie idee (con le quali possiamo essere o meno d'accordo), sostenendo tra le righe la necessità di una sicurezza anche a discapito della privacy, ponendo il "dilemma Assange" perché è giusto farlo. Ma al tempo stesso non riuscendo a sostenere questo castello confusionario, contraddittorio e conflittuale che sono le relazioni internazionali. O quantomeno di farlo secondo canali troppo semplici. Carrie esce praticamente da quel mondo dopo dieci minuti, e la ritroveremo solo per raccontare ciò che sarà di lei nel privato, dalla proposta di During (niente di sorprendente, ma poco interessante) alle preghiere al capezzale di Quinn (strani giochi di luce in questo episodio almeno in un paio di occasioni).
Il resto del lavoro sporco toccherà a Saul, che ha un conto in sospeso con
Allison ovviamente. I due non si incontreranno mai nel corso dell'episodio, se non quando non potranno più parlarsi. Anche qui c'è stato qualche inciampo di scrittura lungo la strada, ma va sottolineato il grande lavoro di
Miranda Otto. Il resto è una sospetta eutanasia, un cliffhanger che non merita più di una riga di approfondimento, dato anche il modo in cui è stato trattato Quinn quest'anno. L'idea di una vicenda quasi antologica salva parecchio la serie e rilancia ad un prossimo anno sul quale non possiamo prevedere nulla, dopo un'annata che – dopo l'ottima quarta stagione – ha rimesso in gioco parecchie certezze.