Homeland 4x12 "Long Time Coming" (season finale): la recensione

Il finale di stagione di Homeland percorre una strada insospettabile e apre le porte al quinto anno dello show

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Spoiler Alert
Durante tutto il corso del finale di stagione di Homeland c'è una nota stonata in sottofondo, la sensazione che ci sia qualcosa di innaturale e sbagliato nel racconto degli eventi. È un epilogo ed un ritorno a casa, ma non è quello che ci aspettavamo. L'esplosivo è lì, in bella vista, e la conclusione sospesa dell'episodio precedente lasciava intendere che qualcuno – molto probabilmente Carrie (Claire Danes) – avrebbe fatto saltare tutto per lasciarci con un pugno di cenere da raccogliere in vista della quinta stagione. Perché Homeland, esplosioni letterali o metaforiche a parte, è sempre stato così nei suoi season finale. E invece no. La direzione di Lesli Linka Glatter, regista storica della serie, ci porta direttamente allo step successivo, all'elaborazione necessaria degli eventi raccontati nelle undici puntate precedenti, al racconto del vuoto nelle vite dei protagonisti. Un vuoto che, necessariamente, andrà riempito senza che sia prima intervenuto un evento eclatante a ripulire il marcio nelle esistenze dei caratteri.

Long Time Coming non è sicuramente il finale che ci aspettavamo. Forse era quello di cui avevamo bisogno e di cui, nella logica interna della serie, c'era necessità, ma per ora la delusione rimane. Dopo aver visto Dar Adal (F. Murray Abraham) nella macchina di Haqqani, attraverso gli occhi di Carrie, nella puntata precedente, esisteva per ognuno di noi un film già scritto su ciò che sarebbe accaduto. Nessuno spera che le proprie previsioni si realizzino pienamente – è bello essere sorpresi dalle storie – ma esiste comunque un margine di soddisfazione personale, quasi autogratificazione, che ci piace provare quando l'evoluzione degli eventi ci dà in parte ragione. Homeland invece agisce da egoista, toglie qualcosa a se stesso e a noi, si priva di un climax degno di questo nome e gioca tutto l'episodio sul ritorno ai drammi personali, lasciando poco spazio al thriller e alla politica.

Nel momento decisivo della stagione che, forse più di tutte, si è allontanata da una visione personale della storia per concentrarsi in terra straniera sulla politica internazionale e sui rapporti di potere, la scrittura, qui curata da Meredith Stiehm (episodio "About a boy"), fa un passo indietro. Ecco quindi lo spazio al funerale del padre di Carrie (episodio dedicato allo scomparso James Rebhorn), che si apre su una serie di nuove svolte nella vita personale di Carrie, e quindi il reincontro con la madre, nella quale la nostra protagonista si identificherà fino a riconsiderare il rapporto con Quinn (Rupert Friend). Una serie di nuove partenze che inserite a questo punto e in questo modo risultano un po' innaturali, incanalate ad hoc nella storia per essere sviluppate il prossimo anno.

Allora molto più interessante è la parentesi che lega Dar Adal a Saul, dalla quale apprendiamo indirettamente il motivo della vicinanza ad Haqqani. Lockhart (Tracy Letts), dopo l'assalto all'ambasciata e la gestione mediocre degli eventi, è sacrificabile. Si apre una strada per il ritorno in sella di Saul (vale sempre la pena di ricordare l'immenso valore aggiunto da Mandy Patinkin alla serie). Lui, uomo d'onore, ma anche uomo pragmatico, prende in considerazione l'ipotesi, ragiona sulle variabili in gioco con razionalità (Carrie è l'istinto, e infatti non sarà d'accordo), e sostiene il nuovo equilibrio del quale, volenti o nolenti, Haqqani farà parte come importante attore in gioco. "Saul would spit in your face", si chiude con questa illusione di Carrie, presto smentita, la quarta stagione di Homeland.

Promossa? Assolutamente sì. Arrivato al punto di rottura (anche un po' più in là) con la vicenda di Brody, la serie di Showtime ha avuto il coraggio e l'intelligenza di mettere un punto fermo su quella vicenda, per poi ripartire con nuove premesse e nuovi attori in quello che è stato definito un Homeland 2.0. La scommessa, nonostante le perplessità iniziali, è stata vinta. La serie è scesa sul campo come raramente aveva fatto in passato, trasferendo le criticità dalla patria sotto attacco direttamente nelle zone più a rischio. Il Pakistan è stato il territorio dove esporsi, dove fallire, dove ricominciare. Tutto ciò mettendo un freno alle dinamiche personali dei protagonisti, con una Carrie sempre istintiva, spesso al limite dell'etica e della professionalità, ma più controllata e responsabile rispetto al passato.

Una storia meno intima, più veloce e diretta, scandita da svolte inattese che hanno confermato lo show per la serie di fantapolitica che è sempre stata. Un ultimo slancio nel finale ce l'avrebbe fatta apprezzare ancora di più.

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