Homeland 3x12 "The Star" (season finale): la recensione

Il nostro commento allo sconvolgente finale della terza stagione di Homeland

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Forse la più grande differenza tra la tv e la vita reale è che tutto ciò che viene raccontato nelle serie deve avere un senso. E questo senso misura il rapporto che si riversa sulla storia raccontata e che è il risultato del dialogo tra le esigenze della narrazione e quelle della caratterizzazione dei protagonisti. Dovrà sempre accadere qualcosa, si dovrà sempre costruire un carico di tensione crescente, ma questo dovrà essere coerente con il percorso dei personaggi, con il loro carattere e soprattutto con il suo impatto sulla storia. Nei suoi primi due anni Homeland ha portato questo rapporto a livelli intensi, costruttivi, reggendo l'equilibrio di una storia capace di mutare e riadattare continuamente se stessa, senza rinunciare al proprio nucleo fondamentale e senza snaturare, ma anzi arricchendo le personalità delle figure tormentate che ne erano il cuore pulsante e vivo.

Carrie e Brody sono le due personalità spezzate e irrisolte che cercano il proprio naturale completamento l'una nelle braccia dell'altra. Li abbiamo visti in questi tre anni andare contro le proprie origini, gli apparati che li hanno partoriti, cresciuti e sfruttati senza pietà per poi sacrificarli sull'altare delle esigenze di politica internazionale. Una voce fredda, che assume il volto ora di Saul, ora di Lockhart, ora di Dar Adal, ci dice che è giusto così, e che anche in un mondo mutato come quello di Homeland, dopo l'attentato di Langley la cui soluzione viene rimandata al prossimo anno, le regole rimangono quelle dello spionaggio classico, che risolve i piccoli drammi dei propri agenti nel più vasto gioco internazionale. Con un colpo di mano non totalmente imprevedibile, e che nel corso del dialogo in cui Carrie rivela di essere incinta diventa quasi una certezza, Brody viene giustiziato.

Rifuggendo qualunque teoria complottista sulla sua possibile sopravvivenza, che se si rivelasse vera distruggerebbe quel poco di realismo ancora rimasto nella serie (e che in ogni caso è stata smentita da più interviste), osserviamo come la morte di Nicholas Brody significhi, da una prospettiva diversa, il sacrificio di Damian Lewis. Il gioco delle parti condotto da questo grande interprete insieme all'altrettanto meritevole Claire Danes è stato la chiave che ha portato al successo Homeland, e che ha consentito alla serie di strappare lo scettro di miglior drama agli Emmy a Mad Men. Sacrificare inteprete e personaggio significa assumere con coraggio come una svolta fosse assolutamente necessaria, anche se questa rappresenta l'ammissione del fallimento nella gestione di quel rapporto che dicevamo all'inizio, anche se rappresenta, in questo season finale che ha il sapore di un finale di serie, la conclusione di Homeland come l'abbiamo conosciuto fino ad ora.

Si è tirata troppo la corda con Brody e, quando ormai questa stava per spezzarsi, si è preferito tenderla e usarla per impiccarlo, piuttosto che lasciarlo agonizzante in una serie nella quale ormai aveva dato quanto poteva. Da marine a terrorista, da terrorista a collaboratore, e poi ancora latitante, pedina nelle mani della CIA, e infine arma umana destinata al macello. Esiste un confine dopo il quale lo sfruttamento e il mutamento di un personaggio diventa insostenibile e troppo contraddittorio. Si può discutere se questo limite nel caso di Brody e del suo ultimo recupero e riabilitazione fosse stato superato, ma certamente, con un rinnovo obbligato per la serie di punta del network, e con l'impossibilità arrivati a questo punto di dare un lieto fine a lui e Carrie, la soluzione sembrava obbligata.

La scena ci ricorda qualcosa di simile visto quest'anno nella terza stagione di The Killing, ma al tempo stesso è molto diversa nella sua rappresentazione. Il commiato tra i protagonisti, che nemmeno riescono ad incontrarsi, non è così forte come si sarebbe potuto rappresentare e gioca tutto sull'affetto per il protagonista. La missione intanto è stata un successo, la storia ha preso un altro corso: Saul (Mandy Patinkin è stato grandioso quest'anno), nonostante, e a causa, di quanto ha compiuto, viene messo da parte. Nel quarto d'ora conclusivo, proiettato in un finale che più che anticipare la quarta stagione serve davvero a distendere gli animi dopo la morte di Brody, Carrie assume ancora una volta un incarico di punta di fronte al nuovo direttore. Prima di andarsene, lascia un segno del passaggio di Brody nella sua vita e in quella della storia americana.

La terza stagione di Homeland è stata anche la più debole, a causa soprattutto di una prima parte lenta, gravata dalla terribile zavorra del personaggio di Dana, della sua storyline improbabile e inutile (tornando a quanto dicevamo al principio, la "fillerosa" storia della sua fuga non ha avuto senso) e più in generale dall'intera famiglia di Brody. Il parziale riscatto è arrivato da metà in poi, con un'improvvisa accelerazione, sintomo forse di un carico di idee non in grado di reggere per una stagione intera (lo stesso Alex Gansa lo ha praticamente ammesso), che ci ha regalato le migliori e più intense puntate dell'anno. È stato anche l'anno in cui la serie ha praticamente cambiato genere, passando dallo spionaggio alla fantapolitica e liberandosi di qualunque catena legata alla verosimiglianza della storia narrata. Alcuni spunti, ma questo è tipico della serie, sono stati lanciati ma non sfruttati, come il solito Quinn o la new entry Fara. Cosa ne sarà di Homeland l'anno prossimo non lo sappiamo, e forse ancora non lo sanno nemmeno gli autori: probabilmente si tratterà di un nuovo inizio, di un Homeland 2.0 tutto da scoprire.

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