Homeland 3x03, "Tower of David": la recensione

Ancora stasi e lentezza nella puntata che rimette in gioco anche Brody

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L'anno scorso, dopo quattro episodi sorprendenti e continui cambi di fronte, Homeland schiacciava tutta la propria tensione narrativa nello straordinario Q&A, episodio claustrofobico, serrato, scritto e interpretato benissimo, che nel rapporto tra Carrie e Brody rifletteva quanto di buono era stato fatto vedere fino a quel momento. Tower of David ne rappresenta lo specchio ideale, giocando ancora una volta per tutta la sua durata sull'insistito parallelo tra i due protagonisti, entrambi, a modo loro, rinchiusi, entrambi sofferenti, lontani ma estremamente vicini nel subire passivamente gli eventi, loro che a quegli stessi eventi avevano dato il via. Alla terza puntata Homeland ancora non ci racconta la propria meta, ma continua a darci le stesse coordinate: una lentezza che non diventa riflessione, una stasi che non costruisce, una lunga preparazione che è promessa (e speriamo premessa) di un futuro non ancora arrivato.

Episode

Homeland ha sempre vissuto dei grandi sconvolgimenti del plot di base che ne hanno fatto la fortuna nei primi due anni. È difficile raccontare il soggetto della storia a chi non ne abbia mai sentito parlare senza accennare anche a tutti i cambiamenti che nel tempo hanno scombinato le carte. E Carrie e Brody sono da sempre le manifestazioni concrete di questa mancanza di equilibrio, di questo nucleo sofferente che è il minimo comun denominatore di personalità altrimenti sfuggenti. Il ritorno di Brody, oltre a rappresentare un'alternativa molto gradita alla storyline della sua famiglia, sembra riconfermare questa tesi per tutta la sua durata. Pochi dialoghi, poche risposte, soltanto il contesto di degrado e mortificazione del Venezuela.

In quelle stanze vuote, in quell'ambiente misero, si muove sperduto l'ex marine, ex terrorista, ex doppiogiochista, ex marito e padre. Per la prima volta dall'inizio della serie Brody non ha un'identità ben definita, non ha un ruolo da interpretare, non è mai stato così simile al vero se stesso come in questo momento. E come lui è Carrie, abbattuta, sola, una persona fragile che ha sempre vissuto dei propri obiettivi e che, una volta privata di questi, è completamente spezzata. Prova a far finta di comprendere i propri errori, la propria situazione (un po' come faceva Sarah Connor rinchiusa in manicomio nelle prime scene di Terminator 2), ma non funziona. Odia Saul, lo manda bellamente a quel paese, ma a lui, al suo mentore, amico e rappresentante dell'unico mondo in cui si sente realizzata, torna a rivolgersi disperata.

Damian Lewis e Claire Danes sono davvero degli ottimi interpreti. Forse non vale la pena sottolinearlo ad ogni episodio, ma ogni tanto è giusto ricordarlo. Ciò che manca è un contesto vivo che li valorizzi al di là della semplice, ripetuta e già vista espressione di un tormento che è valore aggiunto se inquadrato all'interno di qualcos'altro (ad esempio la caccia ad Abu Nazir) ma che stanca velocemente, anche perché già visto, se lasciato a se stesso. L'idea alla base dell'episodio, ideata dal defunto Henry Bromell e completata dal figlio William, è significativa e interessante, ma manca di quella spinta narrativa che da sempre Homeland accompagna alle tensioni emotive. Tre episodi preparatori in una stagione di dodici sono troppi e anche se questa settimana la serie ha fatto registrare un miglioramento rispetto alle prime due puntate (soprattutto grazie alla mancanza di Jessica e Dana) l'impressione è che sia necessaria una svolta.

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