Homecoming (seconda stagione): la recensione
La stagione 2 di Homecoming somiglia ad una lunga coda dell'originale, una bonus track destinata agli appassionati
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Nel 2018, dopo il successo di Mr. Robot, Sam Esmail rielaborava con Homecoming le atmosfere da thriller cospirativo anni '70. In pochi, secchi episodi giocati tra passato e presente, vuoti di memoria e cambi di formato, trovava una sintesi del racconto efficacissima, densa e ponderata. Due anni dopo, questi sette nuovi episodi somigliano, più che ad una nuova stagione, ad una lunga coda dell'originale, una bonus track destinata agli appassionati. Lo scopo non è tanto allargare le maglie della vicenda, ma raccontare più in profondità una parentesi chiusa. Da questo punto di vista, Homecoming 2 è un midquel che non ha il fascino della prima stagione, e che si regge soprattutto sulle interpretazioni dei protagonisti.
La struttura della stagione potrebbe ricordare la prima, mentre la vicenda di Alex potrebbe sovrapporsi a quelle che furono di Heidi e Thomas. Ma in realtà qui c'è una separazione rigida tra il presente e il lunghissimo flashback che occupa il corpo centrale della storia. Alla scrittura tornano Micah Bloomberg e Eli Horowitz, che però non riescono a ritrovare l'ispirata sintesi della prima stagione. I tempi della missione di Alex sono consapevolmente dilatati, anche per assecondare il genere thriller di riferimento, ma la scrittura fatica di più a colmare i momenti di tensione e trovare loro un senso oltre la prevedibilità degli sviluppi.
Non brilla particolarmente questa seconda stagione di Homecoming, che nella memoria collettiva sarà probabilmente destinata a rimanere all'ombra della prima. Un oggetto televisivo particolare, che anche per la durata è facile definire come un film di tre ore e mezzo, e che va a colmare alcuni vuoti della "mitologia" della prima stagione.