Holy Shoes, la recensione

Holy Shoes, esordio alla regia di Luigi Di Capua, intreccia quattro storie con al centro il culto di una scarpa, con chiaro intento moralistico e di ammonimento verso lo spettatore

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La nostra recensione di Holy Shoes, presentato al Torino Film Festival 2023

Non si può definire certo piatto l'esordio alla regia di Luigi Di Capua, membro dei The Pills. Dalle prime scene, la macchina da presa sta stretta sui personaggi, tra primi, primissimi piani e il ricorso alla macchina a mano. L'effetto è di introduzione diretta nel loro mondo, lasciando sullo sfondo il contesto, anche se l'uso marcato degli accenti rende evidente la collocazione romana. È un approccio che guarda ai fratelli D'Innocenzo, da cui è ripreso anche il ritratto della piccola criminalità, priva di qualsiasi patina estetizzante. Un'impostazione iniziale molto forte che però non è supportata da un'altrettanta convincente narrazione e scivola poi quasi nel versante opposto.

In Holy Shoes si intrecciano quattro storie accomunate dal mettere al centro una scarpa, in particolare il modello Typo 3, che costa quasi 800 euro. Queste attirano i ragazzini, strumento per far colpo sulla propria fidanzatina o essere accettati dai propri compagni di classe, così come diventano appetibili come merce contraffatta, occasione per fare molti soldi e provare ad avere una nuova vita.

Scarpe dunque come materiale d'altissimo valore, in pratica come se fosse della droga purissima, con cui far partire un'attività di vendita illegale in casa propria, o tali da necessitare un inseguimento in auto se qualcuno ne ruba un paio. Situazioni dunque tipiche del genere, che nel contesto in cui sono presentate potrebbero essere spunto per una parodia: non è però mai questo l'orizzonte Di Capua, che è sempre serissimo nell'impostazione. Il discorso che esce alla base è infatti una critica al consumismo, dove il problema non sono tanto i personaggi, verso cui il regista è molto vicino e che non condanna mai, ma la società che li circonda, che li spinge a fare di tutto pur di mettere le mani sull'oggetto dei desideri. Non è un caso che nella seconda parte la visuale letteralmente si allarghi, mettendo in primo piano il contesto in cui si muovono i protagonisti. Di conseguenza, viene meno la fluidità della narrazione, che mette in campo una serie di forzati meccanismi per arrivare al nocciolo della questione e rimarcare le proprie riflessioni.

Qui si rende evidente il problema di Holy Shoes, che incastona le sue storie in un'atmosfera molto greve, con chiaro intento moralistico e di ammonimento verso lo spettatore. Giunto allo scioglimento, l'intreccio scadrà poi nel sensazionalistico, sottolineato anche da un commento musicale molto invadente ed enfatico. I personaggi risulteranno a conti fatti una mera funzione e nello spazio concesso non avranno il tempo di delinearsi adeguatamente. Tutti i loro slanci di gioia saranno puniti e perfino l'unica delle quattro sottotrame con un finale aperto viene ammantata da una malinconia che non lascia scampo.

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