Hollywood Stargirl, la recensione
È ora di smetterla di raccontare cosa Stargirl può fare per gli altri e iniziare a raccontare cosa gli altri possono fare per Stargirl
C’era così tanta voglia di un sequel di Stargirl da cambiare completamente genere di appartenenza e finalità. La storia romantica da high school del primo film, seguendo l’età della protagonista (ma soprattutto quella del suo pubblico), diventa una storia di grandi domani, di ricerca di una carriera e della realizzazione del talento ad Hollywood. Stargirl era un film in cui il protagonista era un ragazzo chiuso e impacciato che si apriva grazie all’arrivo di un alieno (si intende metaforicamente), cioè di una ragazza carina e piena di talento, la cui presenza sembra aiutare tutti, dalla squadra di football fino a chiunque ci entri in contatto. Hollywood Stargirl invece è la storia di questa ragazza qui, Susan, che va a Los Angeles con la madre, non aiuta proprio nessuno e anzi cerca di sfondare con il cinema e con le sue delicate canzoni con ukulele (mercato che sembra non essere mai saturo).
In Hollywood Stargirl ci sono audiocassette e cineprese 16mm, supporti dal passato usati come testimoni da passare, come veicolo o metonimia di quel che realmente è lo sforzo artistico. Susan li riceve e li fa propri (o li vende, ma per comprare attrezzatura che le sarà utile) come se nel farlo si bagnasse nel fiume di quel retaggio culturale. Hollywood Stargirl è infatti il tipo di film che ha il culto del passato, ma a parole. Non è Damien Chazelle, che ha una visione problematica del culto del passato, e non è nemmeno Tarantino che ne ha una visione eccitata capace di trasformare la serie B in serie A. Questo è un film che il culto del passato lo utilizza per definire i personaggi, per metterli in continuità con esso (come se non fossero i primi di una nuova onda ma gli ultimi della vecchia scuola) senza mai dare l’impressione che conosca quello di cui parla. Questo film è più che altro appassionato del fatto di mostrarsi appassionato.