Hollywood Stargirl, la recensione

È ora di smetterla di raccontare cosa Stargirl può fare per gli altri e iniziare a raccontare cosa gli altri possono fare per Stargirl

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Hollywood Stargirl, in uscita su Disney+ dal 3 giugno

C’era così tanta voglia di un sequel di Stargirl da cambiare completamente genere di appartenenza e finalità. La storia romantica da high school del primo film, seguendo l’età della protagonista (ma soprattutto quella del suo pubblico), diventa una storia di grandi domani, di ricerca di una carriera e della realizzazione del talento ad Hollywood. Stargirl era un film in cui il protagonista era un ragazzo chiuso e impacciato che si apriva grazie all’arrivo di un alieno (si intende metaforicamente), cioè di una ragazza carina e piena di talento, la cui presenza sembra aiutare tutti, dalla squadra di football fino a chiunque ci entri in contatto. Hollywood Stargirl invece è la storia di questa ragazza qui, Susan, che va a Los Angeles con la madre, non aiuta proprio nessuno e anzi cerca di sfondare con il cinema e con le sue delicate canzoni con ukulele (mercato che sembra non essere mai saturo).

A Los Angeles Susan incontra un mentore in attesa di riscatto, come nei film sportivi, cioè una cantante che ha avuto un gran successo ma l’ha anche perso (Uma Thurman), e una “squadra” di ragazzi con grandi aspirazioni come lei, più un grande vecchio (Judd Hirsch) ex produttore sfiduciato nei giovani d’oggi che però in lei vede qualcosa e la benedice dall’alto della sua pensione donandole una cinepresa 16mm. Questo forse è lo snodo più interessante e sensato di un film che per il resto finge di appoggiarsi all'archetipo della "small town girl in Hollywood" (quelle di solito sono storie di corruzione di anime pure, non di realizzazione di talenti) mentre accumula baci imbarazzati, numeri musicali e una quantità sconfortante di zucchero sussurrato senza avere un’idea precisa, solo il compito di fare un sequel.

In Hollywood Stargirl ci sono audiocassette e cineprese 16mm, supporti dal passato usati come testimoni da passare, come veicolo o metonimia di quel che realmente è lo sforzo artistico. Susan li riceve e li fa propri (o li vende, ma per comprare attrezzatura che le sarà utile) come se nel farlo si bagnasse nel fiume di quel retaggio culturale. Hollywood Stargirl è infatti il tipo di film che ha il culto del passato, ma a parole. Non è Damien Chazelle, che ha una visione problematica del culto del passato, e non è nemmeno Tarantino che ne ha una visione eccitata capace di trasformare la serie B in serie A. Questo è un film che il culto del passato lo utilizza per definire i personaggi, per metterli in continuità con esso (come se non fossero i primi di una nuova onda ma gli ultimi della vecchia scuola) senza mai dare l’impressione che conosca quello di cui parla. Questo film è più che altro appassionato del fatto di mostrarsi appassionato.

Per tutto il film si compongono canzoni e girano film ma non è mai chiaro cosa si stia girando o perché sia così buono (tutti rimangono ammirati e i ragazzi vengono subito presi da una produzione). Ci viene chiesto di fidarci che è tutto pieno di talento, di fidarci dell’analogia degli oggetti ma di cinema non c’è l’ombra. Quando passano dalla cinepresa all’iPhone fino poi alla videocamera, questo segna il passaggio dalla vecchia generazione, agli esordi pieni di fantasia fino al mondo professionale. Ma sempre noi non sappiamo che cosa sia questa roba fantastica che girano. Va un po’ meglio con la musica, che almeno sentiamo, ma rimangono sempre più protagoniste le cover di grandi brani che le canzoni di Susan. La quale tuttavia ha un gran talento. Dicono tutti.

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