Hollywood: la recensione
La miniserie di Ryan Murphy Hollywood è una fiaba di denuncia e un racconto alternativo della storia del cinema
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Hollywood arriva in un momento particolare. Da un lato il cinema, inteso come luogo e momento di condivisione, sta soffrendo. Dall'altro lato quello stesso mezzo di comunicazione negli ultimi anni si è fatto portavoce di un mutamento culturale che, con i suoi tempi, dà sempre più spazio all'inclusione. Ryan Murphy non poteva evidentemente prevedere il primo di questi elementi, eppure la miniserie Netflix riesce per caso a rappresentare una forma di riaffermazione della sala, della sua potenza narrativa, della sua capacità di reinventare la storia stessa. Che tutto questo avvenga tramite uno show su Netflix può essere una contraddizione, ma Hollywood è comunque una bella storia.
E vale la pena evidenziare l'ottimo cast della serie, tra cui spiccano alcuni attori del classico "pacchetto Ryan Murphy": Dylan McDermott, Jim Parsons (che per lui aveva recitato in The Normal Heart), Patty Lupone, Samara Weaving, Darren Criss, David Corenswet, Laura Harrier.
Ryan Murphy e Ian Brennan abbracciano una visione che potrebbe ricordare il Tarantino degli ultimi anni. Come nell'ultimo film del regista, che non a caso aveva sempre Hollywood nel titolo, la storia, quella vera, può essere raccontata, riscattata, riletta dal cinema (o dalla tv in questo caso). Abbracciata questa prospettiva, Hollywood non deve avere più limiti a quel che può raccontare. Una storia già godibile e piacevole di suo – sette episodi che scorrono liscissimi – diventa fiaba di denuncia, racconto alternativo della storia del cinema. Una vicenda impregnata di un idealismo senza compromessi, sdolcinato, ingenuo, quasi meticoloso nell'inserire tutte le storie di riscatto possibili. Con una formula così, Hollywood inevitabilmente indispettirà una parte di spettatori che si attendono un maggiore realismo, mentre soddisferà gli altri.