Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate, la recensione [1]

Pur essendo il capitolo più breve della trilogia, Lo Hobbit: La Battaglia delle cinque armate risulta più prolisso e "creativo" oltre che il meno fedele

Critico e giornalista cinematografico


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La cavalcata di Peter Jackson attraverso Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien si conclude con un film che espande a dismisura la parte terminale della storia. La Battaglia delle Cinque Armate prende tutte le differenze che erano riscontrabili tra libro e film nei precedenti capitoli e le estende, innestato robustamente sulla parte riguardante le battaglie del titolo. Sfrutta i conflitti per dare più senso ai cambiamenti che prima avevamo solo intuito e per portare a termine le trame imbastite intorno a loro (principalmente quella di Kili e Tauriel). Infine, inserisce più di un ponte (alcuni molto grossi) verso Il Signore degli Anelli. Di tutto ciò solo la volontà di collegarlo molto all'altra trilogia pare una decisione azzeccata.

Dei tre film in cui Jackson ha tagliato Lo Hobbit forse questo è quello in cui più sono evidenti le differenze con il testo di partenza e non solo nei termini di trama o nell'uso dei personaggi, quanto nella maniera in cui agiscono. Per la prima volta nei sei film che Jackson ha dedicato al lavoro di Tolkien sembra di non riconoscere in controluce il lavoro dell'autore originale, l'austerità della sua maniera di manipolare i caratteri e la secca asciuttezza con cui racconta i sentimenti. Jackson taglia le scene prediligendo un certo sentimentalismo, si concentra su un linguaggio audiovisivo quanto più semplice e scontato possibile riducendo al minimo le trovate visive. Giunge qui a completamento quella mutazione in melodramma che già si intuiva in La Desolazione di Smaug. Dopo un inizio folgorante che dà grandissimo senso al punto in cui è stata inserita la cesura tra il secondo e il terzo capitolo, il film sceglie la via melliflua, predilige i grandissimi conflitti agli espedienti piccoli e quasi casuali, mette enfasi su ciò che in origine non ne aveva e crea showdown clamorosi quanto prevedibili nel loro esito.

Nell'adattare l'ultima parte del libro la selezione di cosa mettere in scena e cosa no sembra essere ricaduta sui grandi scontri piuttosto che sui piccoli confronti, ai quali è riservato un trattamento un po' ingenuo. Arrivato al termine di un'esalogia che è riuscita a fondare un immaginario filmico tra i più influenti e importanti, intorno ad un testo la cui grandezza fa tremare le gambe, Peter Jackson sembra aver finito il fiato. Il cliffhanger con cui chiudeva La Desolazione di Smaug è ripreso molto bene e si rivela una scelta perfetta (la migliore del film), ma superata quella parte c'è poco altro della forza cui il regista ci ha abituato e molto di quello che invece vediamo nei blockbuster meno inventivi.

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