Hitman: Agent 47, la recensione
Il nuovo adattamento di Hitman fallisce nel fare della buona azione e nel portare la forza del gioco nel film
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Non siamo davanti al primo film tratto dalla serie di videogiochi Hitman, già nel 2007 Xavier Gens ne diresse uno il cui unico merito ad oggi rimane il fatto di aver lanciato Olga Kurylenko puntando tutto solo sull'aspetto esteriore. La versione 2015 di Alexander Bach non si discosta molto dall'idea scriteriata del 2007 di avere un film di serie B che ambisce ad essere serie A, fantascientifico nelle premesse, ma terra terra nella realizzazione. Sostanzialmente malriuscita anche questa volta, la seconda versione cinematografica di Hitman non ha la capacità di mostrare una visione chiara di come trasportare dinamiche videoludiche al cinema. Non che sia obbligatorio fare riferimento ad un altro mezzo di comunicazione, si può anche ignorare la fonte e agire di testa propria, ma la via di mezzo di Agent 47 è un buco nell'acqua come lo era quella di Hitman del 2007.
In questa maniera le opportunità per mettere lo sciapo Rupert Friend in condizione di agire da sicario come nel gioco sono molte e l'idea di dover insegnare ad un'altra persona il mestiere consente al film di spiegare a parole le dinamiche da killer che poi sono alla base del gioco.
Quel che rimane a questo punto è una trama inutilmente intricata e carica di un pathos fasullo che non è nemmeno ben raccontata, ma molto farraginosa e meccanica, forzata e obbligatoria, come se i personaggi fossero consci di essere tali e sapessero di doversi muovere come avviene nei film. Tutto ciò sarebbe però in fondo accettabile se Hitman: Agent 47 facesse l'unica cosa che è ragionevole aspettarsi da lui, cioè della buona azione. Questo non solo non avviene, ma fallisce anche con un tale fragore da essere solo fastidioso, movimento ingannevole e per nulla armonico, fuori tempo e stonato, esplosioni dopo esplosioni che non convincono nè avvincono, ma assordano e basta.
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La trama ovviamente è quella dell'universo del gioco, in cui agenti creati in laboratorio e clonati per non avere sentimenti, lavorano come sicari e ricevono missioni che devono portare a termine, solo che nella vita dell'Agente 47 entra una variabile inattesa (di nuovo): una donna. Stavolta però con più importanza del mero oggetto sessuale di riferimento. Ottemperando alle regole del cinema ad alto incasso moderno, la figura potente è in realtà lei (ma non c'è da temere, vecchio stampo e banale com'è Hitman: Agent 47 riesce a fare in modo che un protagonista maschio e meno efficiente faccia lo stesso tutto il lavoro per la donna più abile).
Quel che rimane a questo punto è una trama inutilmente intricata e carica di un pathos fasullo che non è nemmeno ben raccontata, ma molto farraginosa e meccanica, forzata e obbligatoria, come se i personaggi fossero consci di essere tali e sapessero di doversi muovere come avviene nei film. Tutto ciò sarebbe però in fondo accettabile se Hitman: Agent 47 facesse l'unica cosa che è ragionevole aspettarsi da lui, cioè della buona azione. Questo non solo non avviene, ma fallisce anche con un tale fragore da essere solo fastidioso, movimento ingannevole e per nulla armonico, fuori tempo e stonato, esplosioni dopo esplosioni che non convincono nè avvincono, ma assordano e basta.