Hit Man, la recensione | Festival di Venezia

Hit Man è una commedia che fa bene quando la si vede, perché è fatta bene. Si ride senza tradire la ricerca di Linklater sui suoi temi cari

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La recensione di Hit Man di Richard Linklater, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia

Ci sono tanti motivi per cui ringraziare Hit Man. La più importante è di avere creato finalmente il terreno di gioco che un attore come Glen Powell meritava da tempo. Qui lo troviamo alla sceneggiatura con a Richard Linklater (insieme hanno fatto anche Fast Food Nation e Tutti vogliono qualcosa) e nei panni di Gary Johnson. Un finto sicario. La storia è romanzata a partire da un articolo vero del Texas Monthly. I sicari, intesi come persone che possono essere chiamate e assoldate per uccidere una persona e che lo fanno come lavoro della vita, non esistono. Sono però una presenza ben radicata nell’immaginario collettivo.

Gary ha tanti interessi e competenze, nessuna delle quali legata alla capacità di uccidere: di mattina fa il professore di liceo, insegna psicologia e filosofa, di pomeriggio collabora come consulente con la polizia locale. La sua squadra si occupa di prevenire gli omicidi. L’idea è quindi di fingersi assassini a pagamento, andare all’incontro con il cliente interessato, registrarlo, e fagli confessare i suoi loschi intenti. Le cose, fino ad ora, funzionano straordinariamente bene!

Gary ci finisce dentro quasi per caso ma non ha problemi. Ha infatti un imprevedibile talento nel saper leggere le persone che ha davanti e diventare ciò che loro desiderano. Ovvero ciò che, per il committente, è il sicario ideale. Un uomo credibile rispetto a come se lo sono immaginati dai media, a cui dare fiducia e affidarsi totalmente. Questa personalità totalmente malleabile si chiama Ron. Persona e personaggio restano divisi fino a che non si presenta da lui Madison (Adria Arpona). Una donna perseguitata da un ex violento. Colpo di fulmine, l’agente si innamora di lei e i sentimenti di Gary confluiscono in Ron facendogli commettere un errore. Infrange il protocollo, la salva dalla galera innescando una serie di conseguenze a catena. Una pezza che potrebbe rivelarsi molto peggiore del buco. 

Nonostante una trama fatta di sicari, malavita e tentati omicidi, Hit Man è una commedia di scrittura e situazioni, di quelle difficilissime da fare. È il secondo grazie che si dovrebbe tributare a questo film capace di far sembrare semplicissime delle sequenze esilaranti figlie invece di una complessità, una perizia di scrittura e di messa in scena, senza eguali.

Perché anche se fa molto ridere Hit Man è soprattutto un grande film di Linklater che riesce a toccare le stesse profondità delle sue commedie migliori. Come in La vita è un sogno e Tutti vogliono qualcosa (per non dimenticare Boyhood) il grande tema che lega 113 minuti di riuscitissime sequenze umoristiche è quello caro al regista: l’identità, come questa si possa modificare in base al contesto sociale e alla volontà. Prima erano i ragazzi a scuola che piegavano la loro personalità per piacere ai coetanei (facendo follie), ora è un professore poliziotto che fa follie perché ha capito come oscillare tra “es, io e super io” per diventare quasi totalmente ciò che il ruolo gli richiede. Come un supereroe con un’identità segreta.

L’innesco comico viene dall’incontro tra la personalità “Gary” e quella “Ron” nella stessa persona e da come la sceneggiatura, tramite l’accorto uso di un collega geloso, cerchi in ogni modo di rompere questa sinergia. Con alcune battute da antologia “la galanteria è morta, ma non l’ho uccisa io!” il film dimostra di essere concepito con grande rispetto del genere. Conosce tutti gli stereotipi: la donna bellissima e fatale che destabilizza; l’amore che fa fare errori; l’ex geloso che ritorna e deve confrontarsi con il timido nuovo ragazzo che si finge un duro… Solo che Linklater riesce ad avvicinarsi a ciascuno di questi punti sfiorandoli volutamente. Entra nella loro gravità solo per prendere velocità e deviare continuamente la traiettoria. È veramente un piacere pensare di conoscere il successivo colpo di scena e venire puntualmente smentiti. 

Se la regia fa il suo dovere e dà un ritmo encomiabile al film portando il suo protagonista sempre nelle situazioni più interessanti nei risvolti comici, la vera differenza la fa Glen Powell. I suoi tempi in scena sono perfetti; cambia il corpo, il vestiario, la parlata, per specchiarsi negli psicopatici che incontra. Un godibilissimo gioco cinematografico sull’immedesimazione dell’attore. Sul riportare degli elementi interni come le passioni, il credo politico, le pulsioni, nell’esteriorità. Ovvero come si parla, si appare, si pensa. Il meglio però viene quando Gary, la versione debole, e Ron, l’identità artificiale, entrano in collisione.

In una sequenza magistrale Powell riesce a nascondere nella sua ammiccante faccia sia il professore che il serial killer. Lo fa quando è costretto a imbastire un dialogo improvvisato con Madison, lui sa di essere ascoltato dalla polizia tramite cimice, lei no. Per guidarla a dire le cose giuste scinde la prossemica e le espressioni corporee dal contenuto delle parole che pronuncia. Una litigata furiosa col sorriso, un dialogo costruito solo per chi ascolta. Hit Man è un film che fa bene, perché è fatto bene. Si esce di sala sollevati e carichi di un’energia che solo la perfetta unione tra immagini e scrittura sa dare. Una commedia così ben congegnata che viene voglia di rivederla subito dopo la fine dei titoli di coda. Era da tempo che non accadeva. 

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