His Three Daughters, la recensione: Jacobs distilla cinquant’anni di dramma alleniano in un film impeccabile dove manca l’anima
La recensione di His Three Daughters, il film di Azazel Jacobs con Elizabeth Olsen disponibile su Netflix dal 20 settembre
Meglio un film storto a modo suo di uno tutto giusto come His Three Daughters. Azazel Jacobs – che non sorprendentemente è di Manhattan – ha studiato come un matto per passare l’esame di dramma da camera newyorkese, quel “genere” inventato da Woody Allen che prende il Bergman di Scene da un matrimonio e lo passa al filtro delle elite intellettuali della Grande mela. Il film si muove al 100% in quelle coordinate (le stesse di Baumbach e Greta Gerwig): eleganti loft di New York incorniciano un cinema-teatro dove il dialogo serrato e la claustrofobia degli ambienti assumono una dimensione da seduta di analisi collettiva. His Three Daughters vuole così disperatamente essere accostato a quella tradizione da scordarsi che Interiors ha cinquant’anni e che forse sarebbe anche il caso di dire qualcosa di nuovo.
Lo stesso senso di “scolastico” aleggia sulle caratterizzazioni delle tre sorelle e sulle prove delle (pur bravissime) attrici. Coon è l’anaffettiva control freak, Olsen (ancora intrappolata dentro WandaVision) la madre nevrotica che nasconde il suo dolore dietro una facciata di perfezione, Lyonne la più risolta e serena nonostante l’apparenza trasandata. Tutti i personaggi hanno senso nell’ottica di un racconto che vuole mostrare una famiglia sfasciata, dove ognuna delle sorelle ha qualcosa di criticabile e qualcosa da criticare. Ma nessuno fa il passo, fondamentale in questo tipo di drama, per cui il carattere si stacca dalla pagina e diventa una persona credibile. Le interpretazioni vanno nella stessa direzione: quando Coon spezza i dialoghi in modo monocorde o quando Olsen a un certo punto esplode urlando, non sembra di veder vivere delle persone vere ma di sentir ripetere una lezione imparata a memoria.