Hillary, la recensione
Serie documentaria in 4 puntate che fa l'agiografia più smaccata possibile di HIllary Clinton, ma nel farlo racconta anche il mondo in cui viviamo
Ognuna delle 4 puntate da un’ora (troppe, obiettivamente) parte portando avanti la storia della corsa alla presidenza per poi tornare indietro e portare avanti la storia della vita di Hillary Clinton. Dalla giovinezza a scuola, all’università e al lavoro, poi al periodo al fianco di Bill Clinton come governatore dell’Arkansas, il ruolo di first lady e infine quello di segretario di stato per Obama.
Non solo. La grande preoccupazione di questo documentario è di ribaltare tutta la narrativa contraria formatasi nella sanguinosissima campagna elettorale del 2016. Hillary non è comunicativa, Hillary è fredda, Hillary non piace… Ed ogni passaggio è affrontato dimostrando che era un problema degli altri e che se ha detto cose gravi è stata fraintesa, oppure i media hanno creato uno scandalo là dove non c’era. Quello di Hillary è insomma un racconto politico incredibilmente semplicistico, dove una delle donne più preparate e uno dei team più aggressivi e politicamente scaltri d’America sembrano una compagnia d’amici che girano col pulmino a stringere mani. In cui le amiche delle elementari accompagnano la leader dei democratici e in cui il marito sta buono e calmo nelle retrovie.
Tutte le accuse smontate ovviamente sono le più assurde e più sessiste (non le più contestualizzate e puntuali) ma nel fare questo Hillary ha una sua efficacia. Nanette Burstein monta bene i momenti migliori di una vita effettivamente contraria ad ogni tipo di categorizzazione femminile. Assemblando tutte le scelte meno facili fatte da una donna con uno straordinario desiderio di carriera e una straordinaria capacità, in un mondo (la politica) in cui una donna non è vista di buon occhio da nessuno, questa serie documentaria riesce a rendere conto delle tantissime sfumature di sessismo volontario o involontario che esistono nella nostra società. Nella storia di Hillary (vera o aggiustata che sia) non è difficile riconoscere la storia di un paese e di una parte di mondo (quello occidentale) in incredibile difficoltà quando si tratta di avere una donna al potere.
La quantità di precauzione messe in campo ogni volta per piacere, la quantità di dettagli a cui dover stare attenta, la maniera in cui veniva richiesto di cambiare ed aderire al modello di moglie casalinga e infine il modo in cui ognuno sembra avere un’idea diversa di quali siano i requisiti per una donna di potere, sono la parte più interessante della storia. Che Hillary Clinton sia riuscita ad arrivare dove è arrivata (cioè dove mai nessuna donna in America era giunta) è proprio ciò che dà propulsione ad un documentario fatto di vittorie ma nato per documentare una sconfitta, un film pensato per raccontare la protagonista come il simbolo mondiale del femminismo ma in realtà capace di essere onesto solo quando si tratta di mettere insieme la resistenza maschile al potere femminile.
I Clinton perseguitati dai media, i Clinton coppia felice, i Clinton che sopravvivono alla Lewinsky, i Clinton che si supportano a vicenda, i Clinton che vivono in un mondo in cui le differenze di genere non esistono. Hillary vende una realtà idealizzata, quella in cui ogni affronto viene superato con l’intelligenza tranne quando la stupidità la sommerge come un’onda, tranne cioè quando l’opinione pubblica non la capisce. È la storia di Rocky, di nuovo, messa in altre parole ed altre immagini, quella della sfidante senza niente da perdere che decide di dimostrare al mondo di non essere solo la moglie di un ex presidente e tenta l’impresa impossibile: diventare il primo presidente donna. Perderà, ma come abbiamo imparato da Rocky e come il documentario mostra associando la nascita di una nuova classe politica femminile alle battaglie di Hillary Clinton, probabilmente ha in realtà vinto.
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