High Flying Bird, la recensione

Un procuratore di giocatori dell'NBA decide di sbloccare lo sciopero dei giocatori con una mossa audace. High Flying Bird è il sogno di Soderbergh di svincolarsi dagli studi di produzione

Critico e giornalista cinematografico


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Parla dell’industria della pallacanestro High Flying Bird, ma in realtà è l’industria del cinema il suo vero tema.

Questo film di Soderbergh girato con un iPhone (come Unsane) e ambientato durante uno sciopero dei giocatori (accade raramente ma accade), mette un procuratore nello scomodo ruolo di far finire questo sciopero il prima possibile per poter tornare a guadagnare (è già sei mesi che va avanti e i soldi stanno finendo) senza che nessuno si accorga che lo sta facendo, altrimenti perderebbe clienti. Nel farlo di fatto svela le dinamiche di sfruttamento del talento, della creatività e dei giocatori da parte dell’industria.

Come si diceva però ogni qualvolta che il film dice “basket” in realtà intende “cinema” e Soderbergh per raccontare questa storia distribuisce il film su Netflix e gira con un iPhone, svicola i mezzi tradizionali come fa da una vita alla ricerca disperata e quasi mitologica di una diversa strada per fare cinema grande e grosso, di appeal, commerciale e di richiamo senza Hollywood di mezzo, senza la quota ai produttori, quella ai distributori e via dicendo, tagliando gli intermediari e andando dritti ai consumatori.

Nel film sarà una partitella tra uno dei talenti più importanti del procuratore protagonista e il suo rivale (un 1 contro 1 classico da strada in un momento in cui tutti sono assetati di sport) ad animare un giro di video sui social e preoccupare gli executive spingendoli a porre fine allo sciopero, terrorizzati all’idea che questo sport davvero si svincoli da loro. Non sapremo nemmeno come andrà a finire quell’1 contro 1, perché non importa la trama di questo film, importa quel che dice esistendo. Importano le discussioni con i capi, gli uffici vuoti e gelidi, i campi dimenticati. Ed è una vita che Soderbergh sogna una partita come quella, indipendente, fuori dalle solite strutture e capace di scuotere il sistema dalle fondamenta.

Così gira un film come fosse Spike Lee (a partire da quel titolo in slang), ne ha la libertà formale per non dire i temi e il linguaggio (ma anche diverse soluzioni di regia proprio) ma non il gusto dello sberleffo nel girare, l’audacia di compiere veri atti di insubordinazione alle buone regole del cinema. Un film pieno di campi e uffici gelidi, fotografati con toni freddi e metallici, tutto ripreso con grandangoli d’effetto che ampliano l’idea di ambienti vuoti con pochi uomini dentro. Non gli piacciono i piani alti e chi li abita con i suoi completi ben stirati

In ogni fotogramma Soderbergh è più che altro interessato ad illuminare gli ambienti (è anche direttore della fotografia come spesso capita con i progetti indipendenti), a curare gli sfondi e a giocare con le sue tonalità monocromatiche o con le sue superfici riflettenti, insomma a dare personalità a questa estetica low budget ipersofisticata (spesso degli attori vediamo solo le silhouette nere perché illuminato è lo sfondo). In questi posti che sembrano respingere le persone, che non appartengono mai a nessuno anche quando gli appartengono, dei non-luoghi di transizione anche quando sono case, non si fa che parlare, trattare, mentire e svelare il (rag)giro d’affari.

Difficile divertirsi se si segue la trama pedissequamente (i dialoghi non sono certo il massimo della sagacia e i personaggi stanno lì ad incarnare archetipi, come accade a Bill Duke), più facile farlo se si segue il sogno di Soderbergh di svincolarsi da qualunque sovrastruttura.

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