Hesher è stato qui, la recensione

Un film sull'elaborazione del lutto attraverso la violenza su se stessi e sugli altri. Poco riconciliato, un po' prolisso ma indubbiamente sorprendente...

Critico e giornalista cinematografico


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C'è qualcosa di perverso nell'idea di eroe e cavaliere solitario di Spencer Susser.

Hesher è stato qui è la storia di come una famiglia distrutta da un lutto (la morte della moglie e quindi madre, dei due protagonisti) riceva la visita, non cercata nè voluta, di uno squatter a cavallo tra il grunge-da-venire e il metal. Una persona senza casa e senza meta che piomba nelle vite di due disillusi.

Nell'iconografia del cinema americano l'elemento alieno che irrompe in una situazione problematica è la soluzione, il pensiero divergente che riporta i protagonisti al pensiero convergente, cioè alla normalità dell'american lifestyle.

Hesher è invece lui stesso un vero freak, e non un freak dolce e sensibile o "pacificatore" ma un perturbatore alle volte inquietante, molto violento e di certo non gentile con la famiglia ospitante. Questo Shane, cioè questo cavaliere della valle solitaria che pare venire a salvare tutto e tutti, in realtà è il personaggio più drammatico, contrastato e irrisolto del film.

Con un curioso tono fuori dal tempo (il film sembra ambientato all'inizio degli anni '80 ma non ci sono indizi inequivocabili in materia) e la precisa volontà di distrarre lo spettatore dal vero protagonista, Hesher è stato qui soffre di una certa lungaggine e una prolissità ma ha l'indubbio merito di spiazzare. Se infatti il personaggio di Hesher è talmente irrisolto da risultare alla fine innocuo e vacuo, è il bambino protagonista la vera grande lente del film. La sua rabbia giovanissima è straordinariamente resa dai mille incidenti e le mille cadute da cui si rialza indenne, i mille segni in faccia di tanti soprusi scolastici e disastri in cui Hesher lo trascina o in cui si ficca per sola disperazione.

Alla fine si possono perdonare le molte sbrigative soluzioni (un passato eccessivamente idilliaco nei ricordi, un padre dipinto con due tratti senza nessun impegno, la più classica delle nonnine...) in virtù del dinamismo interno al film e di quel movimento che sballotta il protagonista da un comprimario all'altro, da una spalla all'altra, come la pallina di un flipper. Menato da un bullo, coinvolto in una bravata da Hesher, respinto dalla commessina brutta ma carina (davvero Natalie Portman con occhiali grossi dovrebbe essere bruttina??), vessato dal padre e respinto dallo sfasciacarrozze.

La figura di questo bambino dinamico e volitivo, con un eterno grugno in volto, costantemente vittima di sfruttamento ma mai domo (che ricorda quello di Il ragazzo con la bicicletta), è il vero grande pregio di un film che vorrebbe puntare su Joseph Gordon-Levitt a torso nudo (ma abbastanza nella norma) e Natalie Portman con occhiali (e reduce dall'Oscar) nei cartelloni, e invece stupisce con il piccolo Devin Brochu.

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