Hereditary: Le Radici Del Male, la recensione

Una famiglia su cui incombe un male poco comprensibile, delle morti accidentali... Hereditary ha un mood unico e immagini che bastano a sè

Critico e giornalista cinematografico


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Il suo meritatissimo statuto di “miglior horror dell’anno” Hereditary se lo guadagna lungo tutta la propria durata e con una tale mancanza di pietà nei confronti dei protagonisti da ricordare la maniera in cui Yorgos Lanthimos e Michael Haneke “odiano” i propri personaggi. Ari Aster, sceneggiatore e regista qui all’esordio nel lungo, non ha nessuna empatia con le vittime del suo film, non li compatisce e anzi spesso sembra godere del male che incombe sulle loro teste. Questo dà al film un tono unico, né con loro né contro di loro, Hereditary è l’aguzzino vero dei suoi personaggi.

Tra morti improvvise di personaggi che sembravano protagonisti e una lunghissima fase di set-up, ci vuole diverso tempo prima di capire di cosa stiamo parlando, quale sia la minaccia che così evidentemente incombe sulla famiglia che guardiamo. Una figlia non bellissima fatica a scuola, si comporta in modi strani e attraversa il periodo della propria vita in cui una mancata integrazione fa più male, un figlio più normale cerca di avere le sue storie d’amore adolescenziali mentre i genitori faticano molto a tenere tutto a bada. Eppure c’è sempre qualcosa che non va. Ce lo dice innanzitutto la colonna sonora, ma più ancora ce lo dicono i pessimi presagi e le prime tragedie.

Come un pugno in un film di Cronenberg fa molto più male di un pugno equivalente in un qualsiasi blockbuster, così le tragedie di Hereditary sono terribili.

La forza e l’originalità di questo film è qui, nel modo in cui il senso d’incombente malignità che sa trasmettere influenzi la percezione di tutto. Quella scomoda sensazione che ci sia del torbido, che tutto sia pronto ad esplodere senza capire dove, come o perché, fa superare ad Hereditary le convenzioni dell’horror e lo porta in territorio unico, tutto suo. Il film accumula questa sensazione e poi la rilascia nella grandissima corsa che occupa il terzo atto, in cui tutto diventa chiaro, l’orrore entra nel vivo e capiamo cosa fosse quella sensazione che noi, pubblico, avvertivamo anche più di loro, personaggi.

La calma con la quale siamo entrati nel vivo questo film alla fine è poi ben accoppiata con la potenza con la quale la tensione accumulata è sfruttata. Ari Aster ha una capacità di generare immagini paurose lì, direttamente sul set, con l’arredamento, i materiali e i costumi che non si vedeva da tempo. Non deve nascondere troppo le sue minacce, le muove nello sfondo come faceva Alfredson in Lasciami Entrare e poi le fa esplodere con stacchi di montaggio su scene inquietanti ma mai efferate. Non è il sangue il suo obiettivo ma l’evocazione di qualcosa di ancestrale e realmente demoniaco, quasi nipponico nel suo potere iconico. Là dove il miglior cinema americano lavora sull’andamento del racconto per mettere paura (e sui botti) Aster fa il contrario, lavora di immagini: le immagina, le crea e quando le sbatte sullo schermo fanno la differenza.

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