Hellboy, la recensione

Il reboot di Hellboy elimina tutti i tratti di cinema alto iniettati da Guillermo Del Toro e lo schiaccia verso il cinema di serie B demodè ma con stile

Critico e giornalista cinematografico


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Secondo un’antica leggenda Milla Jovovich nel 2002 ha contratto un terribile patto con il demonio per rimanere per sempre, a qualsiasi età, la donna più bella del pianeta. Questo patto infernale la obbliga a prendere parte a film solo in ruoli ridicoli, 1.000 saranno le parti terribili cui è condannata dopodiché sarà libera. Da quel momento quest’attrice incredibile, nonostante la fama e il suo statuto, popola le produzioni più arroganti e scassate, le più esagerate e barocche animandole con una tenacia, una tigna e uno spirito di sacrificio e dedizione alla causa che non hanno eguali, poiché sa che questa è la sua parte del patto demoniaco.

Non stupisce quindi trovarla qui, nella nuova versione per il cinema di Hellboy, nei panni di una strega tutta occhi spalancati, scollature incredibili, mani che lanciano incantesimi e si stringono ad uncino davanti al volto per comunicare cattiveria. E come sempre è impeccabile, la primatista di uno sport di cui gli altri sembrano non conoscere nemmeno le regole.

È solo uno dei molti aspetti dell’Hellboy di Neil Marshall che lo fanno marciare ad ampissime falcate verso il territorio del B movie consapevole, della baracconata sofferta. Hellboy è la megaproduzione autoriale che può fare uno come Neil Marshall (e che solo lui stesso potrebbe davvero definire tale), un film grande pieno di scene diverse, creature, mostri ma irrimediabilmente tarata sulla creatività di un regista fieramente di serie B. Una lavorazione terribile e piena di problemi lo condanna ad una qualità molto altalenante. Ci sono momenti di una pochezza disarmante e altri invece molto sofisticati, ma è sorprendente come il tono sia uniforme e soprattutto si senta la mano di Marshall. Basterà infatti aspettare solo una 40ina di minuti per vedere arrivare Dog Soldiers migliorato dalla CG, cioè personaggi che ricordano il design dei licantropi del suo film più compiuto.

È che a Marshall piace proprio far esplodere mostri pieni di pus, bava e sangue appiccicaticcio e si vede! Se Guillermo Del Toro aveva fatto di Hellboy un piccolo capolavoro che giocava con i generi bassi per alzarli tramite uno sguardo e una creatività sofisticatissimi, lui gioca solo con i generi bassi e basta. Ma lo fa con una tale coerenza e una tale passione che è facile farsene contagiare. Questo Hellboy dai dialoghi risibili ma dalla scrittura per nulla malvagia (è strutturato e organizzato molto bene, ha un conflitto sofferto che lo rende interessante e i comprimari non sono scritti a tirar via) è il vero grindhouse!

Sicuramente ha influito la supervisione di Mike Mignola, creatore del personaggio, nel centrare bene il tono tra hard boiled e fantasy, tra mostruoso e poliziesco, e sicuramente è cruciale David Harbour nel dare levità e gravitas al personaggio in maniera credibile (è lui l’ancora che tiene il film saldamente fermo impedendogli di prendere derive ridicole ogni qualvolta rischia), ma di certo c’è molto di Neil Marshall. Il suo non essere mai riuscito a diventare un Sam Raimi ma aver mantenuto salda quella stessa passione per demoni e mostri, per il divertimento e la baracconata che vanno a braccetto, spesso ha portato a film discutibili, questa volta, se si accettano le sue regole e si condivide l’amore per un’idea di monster movie semplice e un po’ retro, se si crede che un cinecomic possa essere totalmente scriteriato ma godereccio, che non debba per forza possedere le sofisticazioni che le produzioni maggiori iniettano, allora ci si può davvero divertire.

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